Sunday, June 18, 2006

Savoia , Sottile il portavoce di Fini, Gregoraci la soubrette e i favori in cambio di sesso. Quanto squallore.

Il portavoce di Fini indagato per concussione sessuale con un dirigente RaiE tra le ragazze spunta il nome di Elisabetta Gregoraci: incontri anche alla Farnesina
"Sottile e la showgirlsesso per un posto in tv"
dal nostro inviato FRANCESCO VIVIANO
"Sottile e la showgirlsesso per un posto in tv"'

Elisabetta Gregoraci con Flavio BriatoreMESSINA - Una storia che si ripete. Ragazze che sognano di sfondare nel mondo del cinema e della televisione, costrette a concedersi ai potenti, dirigenti televisivi o personaggi della politica, in cambio della possibilità di diventare star. Dall'inchiesta del pm di Potenza, Henry John Woodcock, emergono sconcertanti episodi che avrebbero coinvolto anche una nota show girl, Elisabetta Gregoraci, attuale fidanzata di Flavio Briatore, protagonista di alcune trasmissioni di successo della Rai, da "Il malloppo" a "Diglielo in faccia". Nell'ordinanza viene sottolineato il ruolo di Giuseppe Sangiovanni, vice direttore delle risorse tv della Rai e di Salvo Sottile (agli arresti domiciliari), portavoce dell'ex vicepresidente del consiglio, Gianfranco Fini. Entrambi sono accusati di concussione sessuale. Secondo gli atti dell'ordinanza di custodia cautelare, la soubrette sarebbe stata in pratica costretta ad avere ripetuti rapporti sessuali con il portavoce di Gianfranco Fini. Rapporti consumati, in alcuni casi, perfino alla Farnesina, sede del ministero degli Esteri. Il passaggio in questione dell'ordinanza di custodia cautelare evoca una storia di squallidi favori. Due i protagonisti: Salvatore Sottile "nella sua qualità di esperto, con funzioni di capo dell'ufficio del portavoce del vice presidente del Consiglio dei ministri, nonché ministro degli Esteri (Gianfranco Fini ndr)" e Giuseppe Sangiovanni, "vice direttore del settore risorse tv della Rai". I due, "abusando delle loro rispettive qualità e dei poteri loro spettanti" avrebbero indotto la "giovane ragazza aspirante ad entrare nel mondo dello spettacolo e in particolare nel settore televisivo, ad erogare, in più occasioni, prestazioni e favori sessuali di vario genere in favore del suddetto Salvo Sottile", persona presentata alla Gregoraci "come influente ed importante". L'ordinanza cita anche le date in cui si sarebbero consumate le prestazioni: il 10 marzo 2006 e nell'estate del 2005.
In cambio di che cosa? Della prospettiva - scrive l'ordinanza - "di potere "sfondare" nel mondo dello spettacolo e cioè di potere partecipare, anche grazie all'influenza del Sangiovanni, a trasmissioni o spettacoli televisivi: trasmissioni rappresentate per esempio dagli spettacoli "Diglielo in Faccia" e "Il malloppo" cui effettivamente la Gregoraci veniva chiamata a partecipare proprio grazie all'intervento del Sottile". Ma non è la sola vicenda a sfondo sessuale che compare nell'ordinanza. I componenti del clan che gestivano il gioco d'azzardo e le licenze per i videogiochi piazzati nei locali di tutta Italia dal messinese, Rocco Migliardi (anche lui arrestato), procuravano ragazze italiane e straniere a tutti i giocatori che portavano nel casinò di Campione d'Italia, ma anche al principe Vittorio Emanuele di Savoia. Sonia e Monica erano le più gettonate dal principe che le accoglieva anche nell'isola di Cavallo e nei suoi frequenti spostamenti in Svizzera ed in Francia. In alcune occasioni Vittorio Emanuele si sarebbe anche lamentato del prezzo pagato per le prestazioni sessuali, ritenendo "elevata", la tariffa di 200 o 300 euro a notte. (18 giugno 2006)

www.repubblica.it

Le intercettazioni rivelano il carattere e il comportamento di Vittorio Emanuelee dei suoi soci: "Speriamo ci siano belle bambine, così le..."Quei soldi in busta per il principe"Un'abitudine per lui delinquere"Al complice diceva: "Sono potente, chi mi ostacola è finito"
dai nostri inviati DARIO DEL PORTO e CRISTINA ZAGARIA
Vittorio Emanuele di SavoiaPOTENZA - Lo hanno fotografato mentre riceveva una busta, secondo l'accusa piena di soldi frutto di un affare illecito. Lo hanno intercettato mentre discuteva, al telefono, di operazioni finanziarie ritenute sospette. Ma lo hanno anche ascoltato mentre si lasciava andare a giudizi grevi sugli italiani, il popolo del quale pure avrebbe voluto diventare re. E mentre con il suo segretario parlava di "pacco" riferendosi a una ragazza "bruna e bellissima".
In oltre duemila pagine, il pm Henry John Woodcock e il gip Alberto Iannuzzi hanno sintetizzato le accuse nei confronti del principe Vittorio Emanuele di Savoia e degli altri protagonisti dell'inchiesta di Potenza. Con una precisazione: l'arresto si è reso necessario per evitare "il pericolo di fuga", stante la sua "palese ed indomabile tendenza a delinquere ed a sottrarsi ai rigori della legge".
Il principe, secondo i magistrati, faceva parte di una vera e propria "holding del malaffare impegnata nel settore del gioco d'azzardo fuorilegge, in particolare attiva nel cosiddetto mercato illegale dei nullaosta". Al telefono, Vittorio Emanuele viene spesso chiamato "il capo" oppure "il gran capo". Ha amicizie influenti con esponenti politici italiani e di tutto il mondo, come peraltro naturale per l'erede di una casa reale, e anche in Libia, dove avrebbe trattato con la famiglia del leader locale Gheddafi per l'apertura di casinò e sale da gioco.
Proprio il paese nordafricano - scrive il gip - potrebbe costituire un rifugio sicuro per l'indagato in fuga". Nell'inchiesta emergono inoltre spunti anche per altre vicende ancora opache, come il "Laziogate".
LAZIOGATE "La Mussolini è fuori, sono stato io"
Dalle intercettazioni realizzate nei confronti di Salvatore Sottile, il portavoce di An finito agli arresti domiciliari, vengono registrati elementi sulla intricata vicenda della esclusione della lista di "Alternativa sociale", facente capo ad Alessandra Mussolini, dalle elezioni regionali del Lazio del 2005. L'ex consigliere comunale di Roma Fabio Sabbatani Schiuma confida, il 12 marzo 2005, solo poche ore prima che le agenzie battessero la notizia della esclusione della lista, di essersi procurato 1300 schede anagrafiche del Comune violando, con l'aiuto di hacker, il sistema informativo dell'amministrazione capitolina. Gli atti saranno acquisiti dal procuratore aggiunto di Roma, Italo Ormanni, che indaga sul caso. Ecco alcuni stralci della conversazione.
Schiuma: "Gli ho portato 1300 schede anagrafiche del Comune di Roma che ho preso in maniera piratesca". Sottile: "Eh, Eh". Schiuma: "Però non ho utilizzato la procedura esatta nella richiesta di queste schede". Sottile: "Ah". Schiuma: "Alias con il computer". Sottile: "Ah, vabbé". Schiuma: "Un pirata, ci siamo inseriti dentro e abbiamo preso tutto quanto".
BUSINESS "Porto io diecimila euro al principe"
Uno delle operazioni finanziarie al centro dell'inchiesta riguarda il rilascio, da parte dei Monopoli di Stato, di 400 nulla osta per macchinette da videopoker. Affare ritenuto dai magistrati sospetto, e a fronte del quale, si evince dalle intercettazioni, il principe Vittorio Emanuele avrebbe ricevuto una somma di diecimila euro. L'indagato messinese Rocco Migliardi parla con l'imprenditore veneziano Ugo Bonazza il 3 marzo 2005.
Migliardi: "Glielo dici al principe che gli porto diecimila euro per come siamo?" Bonazza: "Sì, sì, vai tranquillo".
VIDEOPOKER "In questo campo nessuno è pulito"
Un'altra conversazione, intercorsa tra Bonazza e Vittorio Emanuele viene interpretata dai magistrati come indice della consapevolezza, da parte degli indagati, della illiceità dell'affare videopoker.
Bonazza: "In questo ambiente, principe, nessuno è pulito, diciamocelo. Ha già capito, no?" Vittorio Emanuele: (ride)
AFFILIAZIONE "Losche figure negli ordini sabaudi"
Secondo il gip, l'adesione di alcuni degli indagati "a uno degli ordini dinastici sabaudi, dei quali Vittorio Emanuele è Gran Maestro costituisce occasione e fattore aggiuntivo di coesione e affiatamento". Nell'inchiesta compaiono riferimenti all'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Organizzazione benefica, che però il giudice definisce "utilizzata per reclutare, tra l'altro loschi e discutibili personaggi".
BENEFICENZA "Speriamo che ci siano belle bambine"
Il giudice definisce "quanto mai sconcertante e inquietante, nonché emblematico della personalità degli interlocutori", il passaggio di una conversazione tra Vittorio Emanuele e il suo segretario particolare Gian Nicolino Narducci del 15 settembre 2005. I due "commentano in termini oggettivamente raccapriccianti", scrive il gip, l'invito a una manifestazione organizzata per raccogliere fondi a favore di un'associazione milanese che presta assistenza a minori vittime di abusi e violenze sessuali.
Narducci: "Speriamo che ci siano delle belle bambine, così le..." Vittorio Emanuele: "Subito, sì", urlando. Narducci: (ride) Vittorio Emanuele: "Che bello, allora sono proprio contento perché tutto andrà bene e farà bel tempo".
INSULTI "La Sgrena? E' tutta colpa sua"
In un'altra conversazione, intercettata il 7 marzo 2005, Narducci e Savoia discutono della sparatoria che, in Iraq, costò la vita al funzionario dei servivi segreti Nicola Calidari, che stava conducendo in salvo la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Anche in questo caso, il gup rimarca i "toni grevi e insultanti" usati dai due interlocutori.
Vittorio Emanuele: "E' meglio che non si faccia vedere in giro". Narducci: "Chi è?" Vittorio Emanuele: "Quella m... che ha fatto morire il nostro capo dei servizi segreti". Narducci: "Quella è una comunista di m...".
NOVELLA 2000 Il biglietto al direttore: "Sei morto"
Vittorio Emanuele di Savoia deve rispondere anche di un episodio di minacce nei confronti del direttore del settimanale "Novella 2000", Luciano Regolo, al quale fu inviato un biglietto intimidatorio, con su scritto "Sei morto", dopo alcuni articoli ritenuti sgraditi. In una telefonata del 23 marzo scorso, il principe si rivolge a uno dei coindagati, Umberto Bonazza, per chiedergli di interessare della questione Rocco Migliardi (altro protagonista dell'inchiesta).
Vittorio Emanuele: "Bisogna dire al nostro amico Migliardi.... Regolo, Regolo, il giornalista ci dà molto fastidio". Bonazza: "Mi dice a voce... ok ho capito va bene". Vittorio Emanuele: "Molto, molto fastidio... gliele dica due parole".
INTERCETTAZIONI "Ho il telefonino più ascoltato d'Italia"
Nella stessa conversazione il principe si raccomanda con il suo interlocutore di non cercarlo al cellulare.
Vittorio Emanuele: "Mi raccomando, per piacere, i telefonini". Bonazza: "Sì, sì, sì". Vittorio Emanuele: "Lei mi deve chiamare in ufficio o casa. Perché si ricordi che il mio telefonino è il più ascoltato d'Italia". Bonazza: "Ho capito, è normale perché lei è una persona importante".
TRUFFE "Acqua e zucchero nelle flebo per il terzo mondo"
Il giudice definisce "emblematica della propensione criminale" di Vittorio Emanuele e di Narducci una telefonata dove quest'ultimo viene contattato da un avvocato, non indagato, che gli chiede di far da tramite tra il principe e alcuni clienti del legale disposti a spendere cifre rilevanti per acquistare medicinali da destinare all'Eritrea. Operazione che i magistrati definiscono "dalle connotazioni assai dubbie e sicuramente truffaldina".
Avvocato: "E' roba per il terzo mondo, per cui non dico roba tarocca ma di basso costo, in barba a qualsiasi brevetto". Narducci: "Ecco per esempio abbiamo un'azienda legata al principe che fa anche le flebo". Avvocato: "Tieni conto che deve essere roba di bassissimo costo perché è per il terzo mondo". Narducci: "Bassissimo costo, è acqua e zucchero".
Il segretario del principe fa riferimento a un'azienda legata a Savoia che lavora in Bulgaria e ha aperto anche in Giordania. La vicenda dell'operazione legata ai medicinali viene chiosata con durezza dal giudice: "Appare emblematica degli interessi e delle disponibilità finanziarie di Vittorio Emanuele, distribuiti in tutto il mondo, nonché della pericolosità e della inclinazione criminale del principe, per la verità di animo poco nobile".
INFLUENZA "In Italia sono diventato molto potente"
La rete di relazioni istituzionali di Vittorio Emanuele di Savoia è molto fitta e abbraccia tutto il mondo. Ma a poco più di tre anni dal suo rientro in Italia dopo la fine dell'esilio, il principe sostiene con Narducci di essere diventato molto influente anche nel suo paese d'origine.
Vittorio Emanuele: "Guardi che io adesso sono diventato molto potente in Italia, molto più di quel che credevo. Adesso faccio il c.. a tutti quelli che mi rompono i co.. O si fila come dico io oppure quello che sgarra fuori, capito".
(18 giugno 2006)

Savoia in Galera .

Savoia, con De Luca un "patto di corruzione"
"Dopo Campione, picchiamo Venezia"

Da approfondire, secondo il gip, gli affari "a tratti poco chiari"
gestiti da Proietti Cosimi e Daniela Di Sotto, moglie di Fini


L'avvocato di Vittorio Emanuele, Lodovico Isolabella, dice che il principe "ha argomenti forti da spendere davanti al gip". Ma la Procura di Potenza fa sapere che sono state raccolte "molte prove". E mentre il detenuto si appresta a trascorrere il suo secondo giorno nel carcere di Potenza (che sarà anche il primo degli interrogatori di garanzia davanti al gip Alberto Iannuzzi) emergono nuovi dettagli sull'inchiesta. Come alcune foto, scattate dagli investigatori e mostrate dal Tg3. O, ad esempio, che Achille De Luca, l'uomo individuato dal principe per risolvere, ai Monopoli (attraverso una tangente) la questione dei nulla osta per i videogiochi truccati, preparò un vero e proprio "rapporto" che contiene il "patto di corruzione": copia del fax, inviato il 17 febbraio 2005, è contenuta nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Iannuzzi.

Il "patto di corruzione". Nel fax spedito da De Luca a Vittorio Emanuele, il faccendiere "relaziona con dovizia di particolari su presupposti, svolgimento e esiti della vicenda". De Luca riesce a ottenere, oltre ai nulla osta, "la riabilitazione della reputazione delle aziende" di Migliardi e "l'apertura di un canale preferenziale con Barbarito", e indica al principe "i soggetti contattati, destinatari e intermediari della tangente".

Nulla osta, un giro da 3 milioni. L'affare legato al gioco d'azzardo "legalizzato" dai nulla osta è "un grosso business da 3 milioni di euro": è Bonazza che parla, chiedendo al principe di agevolare Migliardi. Tutto comincia quando la Guardia di Finanza avvia in Veneto un'operazione contro i videogiochi illegali che Migliardi definisce "un massacro".
La persona giusta. Per evitare i sequestri servono i nulla osta. Narducci parla di un suo amico generale della Guardia di Finanza "abituato a mangiare, sicuramente ci darà una mano". Ma non è la persona giusta. Vittorio Emanuele individuerà "qualcuno più importante": si rivolge a De Luca, che sceglie un commercialista romano, amico di Salvatore Sottile, che a sua volta coinvolge Francesco Proietti Cosimi. E' lui che raggiunge Giorgio Tino e Anna Maria Lucia Barbarito.

Le foto dei "protagonisti". Alcune foto scattate dagli
investigatori a Migliardi e De Luca sono state mostrate nel corso del Tg3. Un gruppo riguarda l'incontro all'aeroporto di Catania tra Migliardi e De Luca: Migliardi ha una busta bianca in mano che, nella foto successiva, appare invece nelle mani di De Luca. Altre foto ritraggono Vittorio Emanuele con Migliardi e Bonazza. Ancora una busta, infine, è immortalata tra le mani del principe, ritratto con Migliardi e Bonazza che gliel'avrebbero appena consegnata.

"A Campione, quattro sacchi di soldi". In una telefonata il principe si mostra impaziente per l'affidamento dell'incarico di procacciatore di clientela, per il casinò di Campione, a Bonazza: "Ci tengo molto, lì ci sono quattro sacchi di soldi". Il sindaco di Campione, Roberto Salmoiraghi, opera affinché l'incarico vada a Bonazza perché considera "poco raccomandabile" Migliardi.

Il sindaco: "Tu cosa fai per me?". Salmoiraghi, assicurata la conclusione della trattativa per l'affidamento a Bonazza dell'incarico, vuole qualcosa in cambio: "Tu cosa fai per me?" chiede - "con tono incalzante", annota il gip di Potenza - al suo interlocutore. Al sindaco di Campione andranno - gli spiega il delegato per la Lombardia dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro - il titolo di "dottore mauriziano", una "commenda" e la nomina a "ambasciatore". Prevista anche una ricompensa alla famiglia, probabilmente un posto di lavoro.

"Andiamo a picchiare Venezia". Campione non basta, il principe dice a Bonazza "e dopo andiamo anche a picchiare Venezia". Bonazza è più cauto: "Loro sanno già che stiamo collaborando con Campione e sono interessati a vedere qualcosa, a fare un discorso, buttiamo giù le basi".

"Quella brama di guadagnare". Altra telefonata, parla l'assistente del principe, Narducci: "Lui ha brama di guadagnare, però molte cose non è che si possono fare così, dal giorno al momento". Narducci racconta a Bonazza degli incitamenti ricevuti dal principe affinché trovi un "canale" per i nulla osta. Ma le sollecitazioni giungono nel periodo natalizio del 2005, a uffici pubblici semivuoti: "Comunque - dice Bonazza - c'era un centone da dividere fra me e te, e capisci...".

L'avvocato: "Si sente raggirato". L'avvocato Isolabella ha incontrato il suo assistito: "L'abbiamo trovato bene, sereno, lo trattano bene, da re. Però non può guardare la televisione. Non ha voluto guardare i giornali". Secondo l'avvocato Bardi, il principe ha ribadito di essere "assolutamente innocente": "Si sente raggirato da qualcuno che gli stava vicino". Precisa Isolabella: "No, non da qualcuno in particolare, ma da tutto il sistema".

Gli affari di Cosimi e Di Sotto. Le vicende societarie riguardanti "gli affari gestiti in comune da Francesco Proietti Cosimi e Daniela Di Sotto meritano un sicuro, ulteriore approfondimento investigativo": lo ha scritto il gip Iannuzzi, nell'ordinanza di arresto. Il riferimento alla "fitta rete di affari, a tratti poco chiari", fra Proietti Cosimi e la moglie dell'ex vicepresidente del Consiglio, è contenuto nella parte vicina a quella che l'ordinanza dedica al gioco d'azzardo e alle schede per videogiochi truccate ma "regolarizzate" dai nulla osta.

Sunday, June 11, 2006

http://www.articolo21.info/ sito su problematiche attinenti la libertà di informazione.

http://www.antimafiaduemila.com/ sito antimafia

SILVIO BERLUSCONI E MAFIA

Silvio Berlusconi e Cosa Nostra
Sei indagini archiviate a Palermo su richiesta della stessa Procura per scadenza dei termini massimi concessi per indagare. Ma, nella sentenza emessa l’11 dicembre 2004 dalla II sezione del Tribunale di Palermo a carico di dell’Utri (condannato a 9 anni per concorso esterno) e motivata il 5 luglio 2005, i giudici scrivono che il gruppo Berlusconi ha ricevuto finanziamenti “non trasparenti” a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta. E ha versato “per diversi anni somme di denaro nelle casse di Cosa Nostra”. Dell’Utri infatti “anziché astenersi dal trattare con la mafia…, ha scelto, nella piena consapevolezza di tutte le possibili conseguenze, di mediare tra gli interessi di Cosa Nostra e gli interessi imprenditoriali di Berlusconi (un industriale, come si è visto, disposto a pagare pur di stare tranquillo )”. Quando poi, nel 1993, la Fininvest si tramutò in Forza Italia, il capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano “ottenne garanzie” che lo convinsero a “votare e far votare per Forza Italia”, con cui aveva “agganci” anche il boss stragista Leoluca Bagarella. Garanzie fornite da Marcello Dell’Utri, che ha avuto “ per un trentennio contatti diretti e personali” con un boss del calibro di Stefano Bontate e Mimmo Teresi, oltre al “fattore” Vittorio Mangano, assunto ad Arcore nel 1974 “pur conoscendone lo spessore delinquenziale, e anzi proprio per tale sua <­<­qualità>> con l’avallo compiaciuto di Bontate e Teresi”. Da tre decenni Dell’Utri svolge un’”attività di costante mediazione tra il sodalizio criminoso più pericoloso e sanguinario del mondo e gli ambienti imprenditoriali e finanziari milanesi, in particolare la Fininvest”, nonché una “funzione di <­<­garanzia>> nei confronti di Berlusconi”. Nei “momenti di crisi tra Cosa Nostra e la Fininvest” Dell’Utri fa da mediatore, “ottenendo favori” dalla mafia e “promettendo appoggio politico e giudiziario”. Tutte condotte “pienamente e inconfutabilmente provate da fatti, testimonianze, intercettazioni”. I rapporti fra Dell’Utri e Cosa Nostra “sopravvivono alle stragi del 1992-93, quando i tradizionali referenti, non più affidabili, venivano raggiunti dalla “vendetta” di Cosa Nostra, e ciò nonostante il mutare della coscienza sociale di fronte al fenomeno mafioso nel suo complesso”. Il senatore berlusconiano è sempre “disponibile verso l’organizzazione mafiosa nel campo della politica, in un periodo in cui Cosa Nostra aveva dimostrato la sua efferatezza criminale con stragi gravissime, espressioni di un disegno eversivo contro lo Stato, e, inoltre quando la sua figura di uomo pubblico e le responsabilità connesse agli incarichi istituzionali assunti, avrebbero dovuto imporgli ancora maggiore accortezza e rigore morale”. Insomma, Dell’Utri ha continuato a “mafiare” anche dopo l’entrata in Parlamento nel ’96 e a “inquinare le prove” durante il suo processo. Fatti, non teoremi, secondo i giudici: la “pluralità delle sue attività ha costituito un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di Cosa Nostra, cui è stata offerta l’opportunità, con la mediazione di Dell’Utri, di entrare in contatto con importanti ambienti dell’economia e della finanza”. Ed esistono “prove certe della compromissione mafiosa dell’imputato Dell’Utri anche relativamente alla sua stagione politica”. Sempre secondo i giudici, Forza Italia nasce nel ’93 da un’idea di Dell’Utri, il quale “non ha potuto negare” che ancora nel novembre ’93 incontrava Mangano a Milano, come risulta dalle sue agende, mentre era “in corso l’organizzazione del partito Forza Italia e Cosa Nostra preparava il cambio di rotta verso la nascente forza politica”. Il perché, secondo i giudici, è semplice: Dell’Utri incontrava Mangano nel 1993-94 per promettere “aiuti concreti e importanti a Cosa Nostra in cambio del sostegno a Forza Italia”. Tant’è che ancora nel ’99, come risulta da intercettazioni, Cosa Nostra impone ai suoi uomini di votare Dell’Utri “per tirarlo fuori dai suoi guai giudiziari: i rappresentanti delle istituzioni “lo volevano fottere” a tutti i costi, ma non avrebbero più potuto fargli nulla se fosse andato al Parlamento Europeo”. Dunque fin dal ’94 “vi è prova che Dell’Utri aveva promesso alla mafia precisi vantaggi politici e la mafia si era vieppiù orientata a votare Forza Italia”.Quanto all’origine delle fortune di Berlusconi, che incamerò a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta centinaia di miliardi di lire di provenienza ignota, i sospetti della Procura sono condivisi dal Tribunale: “La scarsa trasparenza o l’anomalia di molte operazioni Fininvest negli anni 1975-84 non hanno trovato smentita dal consulente della difesa Dell’Utri; non è stato possibile risalire… all’origine, qualunque essa fosse, lecita od illecita, dei flussi di denaro investiti nella creazione delle holding Fininvest. E allora le <­<­indicazioni>> dei collaboranti e del Rapisarda [sul riciclaggio di denaro mafioso, nda] non possono ritenersi del tutto <­<­incompatibili>> con l’esito degli accertamenti svolti”. Poteva chiarire tutto Berlusconi. Ma quando il Tribunale si è recato a Palazzo Chigi per interrogarlo, nel 2002, il premier “si è avvalso della facoltà di non rendere interrogatorio” e così “si è lasciato sfuggire l’imperdibile occasione di fare personalmente, pubblicamente e definitivamente chiarezza sulla delicata tematica, incidente sulla correttezza e trasparenza del suo precedente operato di imprenditore che solo lui, meglio di qualunque consulente o testimone, avrebbe potuto illustrare. Invece ha scelto il silenzio”.

INDRO MONTANELLI SU BERLUSCONI 2001

È il bugiardo più sincero che ci sia, è il primo a credere alle proprie menzogne. È questo che lo rende così pericoloso. Non ha nessun pudore. Berlusconi non delude mai: quando ti aspetti che dica una scempiaggine, la dice. Ha l’allergia alla verità, una voluttuaria e voluttuosa propensione alle menzogne. “Chiagne e fotte”, dicono a Napoli dei tipi come lui. E si prepara a farlo per cinque anni.
Indro Montanelli, 2001

Tuesday, June 06, 2006

un'articolo sulle possibili cause della scomparsa di EOLO

IL COMPLOTTO DELL’ARIA COMPRESSA


Di Ugo Bardi – Gennaio 2005 (rivisto e corretto Marzo 2005)

Dipartimento di Chimica, Università di Firenze

www.aspoitalia.net









Siamo in una situazione in cui il problema dell’esaurimento delle risorse, quelle energetiche tradizionali in primo luogo, non si può più considerare come qualcosa di remoto e che non ci riguarda. Il fatto che il problema stia cominciando a porsi porta a due reazioni emotive; la prima è di negare che il problema esista l’altra che il problema si risolverebbe facilmente se non fosse per il complotto del governo/compagnie petrolifere/multinazionali/alta finanza/gnomi di Zurigo o chi altro che affossano qualche meravigliosa soluzione tecnologica che altrimenti tutti già utilizzerebbero invece del petrolio.



Ci sono molte ben note bufale in questo campo, fra le quali citiamo a mo’ di esempio l’ “energia orgonica”, l’ “energia di punto zero” e vari altri casi che si riducono alla fine dei conti al buon vecchio moto perpetuo. Andremo invece a esaminare in un certo dettaglio un caso più complesso e più difficilmente valutabile, quello della vettura stradale ad aria compressa, che è stato definito una “bufala” da alcuni ma che si presenta anche come una possibile cosa seria. Questo veicolo è noto col nome di “EOLO,” prototipo progettato e brevettato dall’ing. Negré e promosso e propagandato dalla ditta MDI del Lussemburgo. La Eolo esiste da svariati anni e ogni anno, un po’ come l’influenza cinese, si ripresenta solo leggermente mutata a generare l’entusiasmo di molti che vi vedono la soluzione a tanti problemi, primo fra tutti l’inquinamento urbano da traffico che è una cosa estremamente grave e seria.



E’ interessante notare la reazione all’annuncio di questo oggetto come la si può vedere nei vari forum che si occupano di energia, ambiente e inquinamento. Di solito, c’è sempre qualcuno che non aveva mai sentito parlare della Eolo e che annuncia la grande “novità” della vettura ad aria compressa con entusiasmo, a volte come l’arrivo di una vera e propria nuova era ecologica. La reazione si suddivide fra commenti altrettanto entusiasti da una parte, mentre da un’altra si denuncia il fatto che la macchina ad aria compressa semplicemente sposta il problema dell’inquinamento dal tubo di scappamentto alla centrale elettrica, senza risolverlo. Una frazione dei commentatori esprime dubbi sulla fattibilità tecnica del concetto e fa notare come non esiste nessuna prova che l’oggetto in questione sia in grado di dare veramente le prestazioni conclamate. Qualcuno parla francamente di “bufala” e di “imbroglio”. A questo, gli entusiasti rispondono che se la Eolo non è ancora sul mercato questa è, ovviamente, colpa del complotto delle compagnie petrolifere che non vogliono concorrenza.



Come possiamo valutare questo pasticcio di proclami e controproclami? I dati disponibili riguardo a effettive prove su strada della Eolo, della quale sembra esistano pochissimi esemplari, sono molto scarsi. Una cosa che possiamo dire è che la Eolo è un caso del tutto isolato in un panorama tecnologico nel quale, apparentemente, la maggior parte degli attori nel campo (case automobilistiche, piccoli costruttori, ecc.) hanno deciso a priori che il concetto di propulsione ad aria compressa non è interessante in confronto ad altre tecnologie a “inquinamento zero” come la trazione elettrica accoppiata a batterie o a pile a combustibile.



Possiamo escludere senz’altro che questo sia il risultato di qualche complotto, altrimenti i costruttori avrebbero smesso di lavorare anche su tutte le altre soluzioni. Piuttosto, il fatto di scartare a priori l’aria compressa deve essere il risultato di una stima dai principi fisici di base. Proveremo ora a fare, appunto, questa stima. Teniamo conto che questo tipo di stima non sostituisce né uno studio ingegneristico completo né i test sperimentali, ma ci serve per definire in quale ordine di grandezza ci muoviamo e che cosa possiamo aspettarci. Potrebbe la macchina ad aria compressa fare concorrenza come autonomia a una macchina tradizionale a benzina o diesel? Oppure rientriamo nel settore delle “microvetture da città” a bassa velocità e scarsa autonomia come quelle a batteria? Quello che segue è moderatamente tecnico e il lettore non interessato ai dettagli può semplicemente saltare questa sezione per andare direttamente alla sezione “conclusioni”





Veicoli ad aria compressa.



La tecnologia dell’aria compressa non è certamente cosa nuova. Se vogliamo andare alle radici storiche dell’idea, possiamo addirittura risalire al periodo alessandrino, quando gli ingegneri del tempo sperimentarono delle catapulte ad aria compressa. Si scontrarono però per la prima volta con i problemi della gestione termica della compressione e dell’espansione; fra le altre cose gli prendeva fuoco il catrame usato per sigillare i cilindri pieni d’aria. Alla fine dei conti, le catapulte tradizionali ad arco o a tendine di cavallo funzionavano molto meglio. Verso la seconda metà dell’800 si cominciarono a costruire delle locomotive ad aria compressa per usi particolari, per esempio per trasporto nei tunnel delle miniere. Queste macchine non riuscirono mai a far concorrenza alle macchine a vapore tradizionali e questo la dice lunga sulle difficoltà della cosa, dato che l’efficienza dei motori a vapore è notoriamente infame. Non si riportano casi storici di vetture stradali azionate ad aria compressa. Oggi, l’aria compressa come sistema di immagazzinamento di energia ha ripreso interesse nei sistemi cosiddetti “CAES” (compressed air energy storage). Questi sistemi utilizzano cavità sotterranee per immagazzinare grandi quantità di aria compressa a pressioni relativamente basse. Vengono utlizzati in combinazione con sistemi di turbine a gas di grandi dimensioni. La tecnologia CAES non è adatta per applicazioni mobili.



Mancando veicoli ad aria compressa circolanti su strada, i dati disponibili sono necessariamente incerti. Per questa ragione potremo solo dare una valutazione di massima, di ordine di grandezza, senza pretendere di arrivare a delle conclusioni esatte. Questi dati di ordine di grandezza ci permetteranno comunque un confronto con altre tecnologie veicolari. Occorre anche definire i criteri di giudizio. Sostanzialmente ci sono due parametri tecnologici principali da considerare, uno è l’efficienza di “ciclo di vita” ovvero con quanta efficienza il veicolo utilizza l’energia primaria di partenza – di solito energia elettrica generata da una centrale termica. L’altro è il rapporto peso/energia trasportata del veicolo stesso, che ne determina la capacità di trasporto e l’autonomia. Non possiamo poi trascurare la questione dei costi e, per finire, ci limiteremo nella valutazione a tecnologie che siano disponibili sul mercato, tralasciando nuove tecnologie, possibili ma incerte.



Consideriamo per prima cosa la questione dell’efficienza di ciclo di vita. Senza andare in calcoli dettagliati, diciamo che in confronto a un sistema che usa direttamente un motore elettrico, un sistema come quello EOLO deve prima comprimere l’aria mediante un compressore (ovvero un motore elettrico) per poi utilizzarla per mandare un motore a pistoni. Questo porta necessariamente a una perdita di efficienza, ulteriormente aumentata dal fatto che il motore a pistoni della Eolo viene dichiarato come avente un efficienza del 70% contro l’efficienza di oltre il 90% dei motori elettrici moderni. Questa minore efficienza del veicolo ad aria compressa sarebbe tuttavia sopportabile se ci fossero in cambio di prestazioni superiori in termini di autonomia, che è oggi il punto debole delle vetture elettriche.



Vediamo allora di fare un po’ di conti. Come prima approssimazione, supponiamo che il gas segua la legge dei gas perfetti. Ne consegue che l’energia immagazzinabile è:



L= nRT ln(Pf/Pi)



dove i suffissi “i” e “f” stanno per “iniziale” e “finale.” Risulta dalle descrizioni della MDI che la Eolo monta delle bombole da sub come contenitori dell’aria compressa. Questa è una tecnologia già ottimizzata in termini di pesi per garantire la miglior trasportabilità possibile. Una bombola da sub in acciaio di 15 litri pesa circa 16 kg e contiene circa 4 kg di gas compresso a 200 bar. Sostituendo questi valori troviamo un’energia di 1.8 MJ, ovvero circa 440 Wh. Il rapporto energia/peso è circa 25 Wh/kg. In principio, si potrebbe anche lavorare a pressioni più alte, diciamo fino a 300 bar usando bombole in carbonio. Queste bombole sono costose e non è chiaro se sarebbe possibile omologarle per un veicolo circolante, comunque in questo caso l’energia immagazzinata potrebbe salire fino a 30-40 Wh/kg.



Possiamo confrontare questo valore con quello delle batterie elettriche (vedi, p. es. http://www.batteryuniversity.com/partone-3.htm). Abbiamo circa 30-50 Wh/kg per le batterie al piombo tradizionali, circa 80-100 Wh/Kg per le batterie al Ni/Cd e circa 100-130 Wh/Kg per le batterie al litio - polimero. Quindi, potenzialmente l’aria compressa potrebbe fare altrettanto bene delle batterie tradizionali al piombo, meno bene delle batterie al litio-polimero e decisamente meno bene al confronto dei combustibili tradizionali, benzina e gasolio, che immagazzinano fino a 10 kWh/kg (è questo, incidentalmente, il fattore che rende accettabile, al momento attuale, l’utilizzo di motori inefficienti come quelli a pistoni a combustione interna.)



Il calcolo di cui sopra quantifica l’energia immagazzinata dall’aria compressa ma la cosa importante è quanta di questa energia può essere effettivamente sfruttata. Per prima cosa, consideriamo che il motore ad aria compressa deve necessariamente funzionare a una pressione superiore a quella atmosferica, per cui non si può sfruttare tutta l’aria immagazzinata nelle bombole. Se, per esempio, in condizioni di regime il pistone richiede una pressione di 40 bar, questo vuol dire che il 20% dell’energia immagazzinata a 200 bar non potrà essere utilizzata. Come ulteriori elementi di svantaggio per l’aria compressa, notiamo la minore efficienza del motore ad aria rispetto a quello elettrico, già citata prima (70% contro >90%). Notiamo anche che una vettura elettrica ha la possibilità di recuperare energia in frenata, possibilità che viene implementata in molte delle vetture elettriche sul mercato. Questo recupero è possibile, in teoria, anche per l’aria compressa, ma molto difficile in pratica per le complicazioni meccaniche associate e non sembra che questa possibilità sia stata implementata nella Eolo.



Per finire, il punto forse più importante è che sarebbe possibile recuperare tutta l’energia immagazzinata in un gas compresso solo se si potesse fare avvenire l’espansione a temperatura costante (“isoterma”). Viceversa, un gas si raffredda quando si espande e questo diminuisce di parecchio il lavoro che se ne può estrarre. Questo tipo di espansione si dice “adiabatica”. Utilizzando le appropriate formule, si trova che per un’espansione puramente adiabatica, l’energia effettivamente sfruttabile dal gas potrebbe essere ridotta di un fattore 10 circa rispetto al caso isotermo. Nella pratica, l’espansione del gas può essere fatta in stadi, lasciando progressivamente riscaldare il gas. Questo tipo di espansione viene detta “politropica” e le formule che descrivono l’energia utile ottenibile dipendono dalla differenza di temperatura, dalla capacità termica del gas e da un “fattore politropico” che dipende dalle condizioni di espansione. E’ difficile dire che livello di efficienza possa raggiungere l’espansione politropica del sistema della Eolo, ma sicuramente non sarà pari a quella del ciclo ideale isotermo e potrebbe essere, in effetti, molto inferiore.



A questo riguardo, si pone il problema di come la Eolo possa gestire le problematiche termiche create dall’espansione adiabatica dell’aria ad alta pressione. Nel normale uso dell’aria compressa, si lavora a pressioni molto più basse; per intendersi, un avvitatore di quelli usati dai gommisti funziona normalmente a soli 6 bar e in un officina raramente si trovano applicazioni dell’aria compressa oltre qualche decina di bar. In queste condizioni, non ci sono problemi di raffreddamento dovuti all’espansione del gas. Ma per pressioni di 200 bar o superiori, l’espansione può causare il congelamento dell’acqua contenuta nel gas con la conseguente ostruzione degli ugelli. In effetti, nel caso della Eolo si può pensare che esistano delle notevoli difficoltà a evitare il problema considerando le piccole masse in gioco in una microvettura.



Le incertezze inerenti ai pochi dati disponibili sono tali che non possiamo arrivare a dei numeri precisi, ma possiamo comunque arrivare a concludere che: una vettura ad aria compressa ha efficienza e prestazioni dello stesso ordine di grandezza (e probabilmente inferiori) di quelle di una vettura a batteria al piombo e sicuramente inferiori a quelle di una vettura con batterie al litio. Queste prestazioni non sono neanche lontanamente comparabili a quelle di una vettura con motore tradizionale a benzina o a gasolio.





Conclusioni.



Per il momento, l’aria compressa come mezzo di stoccaggio di energia si presenta come pratica soltanto per grandi volumi, ovvero per sistemi stazionari di grande potenza. Non è da escludere che sia possibile costruire un veicolo ad aria compressa utilizzabile in certe condizioni. Il sistema ad aria compressa avrebbe l’indubbio vantaggio del numero quasi infinito di cicli di carica/ricarica delle bombole, ma risulterebbe senza vantaggi significativi (e probabilmente in svantaggio) in termini di prestazioni rispetto alla tecnologia tradizionale delle batterie al piombo e quasi sicuramente svantaggioso rispetto alla nuova generazione di veicoli a batteria al litio (tipo Toyota Prius).



Possiamo dunque scartare senza problemi l’ipotesi che il fatto che oggi non possiamo comprare la Eolo da un concessionario sia dovuto a un complotto. Se così fosse, bisognerebbe spiegare come mai i cospiratori non si siano preoccupati di affossare anche la tecnologia delle macchine a batteria. E’ assai più probabile che i promotori della Eolo si trovino effettivamente in difficoltà a sviluppare una vettura veramente pratica e utilizzabile.



D’altra parte, anche se si vendesse dai concessionari, la vettura ad aria compressa non risolverebbe il problema che ci troviamo di fronte, ovvero di eliminare l’attuale parco macchine inefficienti e inquinanti, sostituendolo con veicoli a “emissioni zero” se possibile alimentati da fonti rinnovabili. Purtroppo, gli acquirenti sono abituati ai motori a combustione interna a benzina o a gasolio e non sembrano minimamente interessati a passare a veicoli che, pur non inquinanti, non danno le stesse prestazioni e non hanno la stessa autonomia. Anzi, negli ultimi anni il mercato si è sempre più orientato verso veicoli dispendiosi e inefficienti, quali gli “Sport Utility Vehicles”; SUV, rifiutando di dare spazio ai veicoli a batteria. La vettura ad aria compressa non avrebbe speranze di fare di meglio.



Di fronte a questa situazione, lascia perplessi l’aggressiva strategia di marketing della MDI. Che senso ha vendere licenze per la costruzione di un veicolo che per il momento non circola su strada e non esiste sul mercato? Che senso ha promuovere con tanta insistenza una tecnologia che non ha prestazioni superiori a quelle delle vetture a batteria che, per il momento, non riescono a quadagnarsi una fetta di mercato significativa?



Tralasciando di addentrarsi nei sospetti peggiori, forse è comunque il caso di dire anche qualcosa di buono della piccola Eolo, che ha il merito di aver generato un dibattito sulla necessità di auto veramente a “emissione zero” per i centri urbani. La situazione di inquinamento è oggi tale da configurarsi come una vera e propria epidemia. Il Comitato sugli effetti sanitari dell’inquinamento atmosferico in Gran Bretagna (COMEAP, 2001) ha stimato che l’inquinamento da PM10 nelle aree urbane dell’Inghilterra provochi 8.100 morti ogni anno e 10.500 ricoveri ospedalieri; questo danno è esprimibile anche come una diminuzione della speranza di vita media compresa tra 2 e 20 mesi per ciascun cittadino, attribuibile all’inquinamento atmosferico. In media, è quasi un anno di vita in meno per ciascuno di noi e questo è soltanto per i danni causati dalle polveri sottili. E’ comprensibile, dunque, l’entusiasmo di molte persone di fronte a quella che si presenta come una soluzione.



Tecnicamente, è molto probabile che la Eolo non sia la soluzione giusta, ma il problema è reale. Fortunatamente, esistono anche soluzioni reali. La nuova generazione di batterie al litio si presenta come in grado di fornire vetture con autonomie dell’ordine dei 300 km con velocità massime intorno agli 80 km/h, perfettamente adatte per uso urbano e extraurbano a breve e media distanza. Anche senza aspettare le batterie al litio (comunque già in produzione con la Toyota Prius) le vetturette a batteria al piombo potrebbero già essere utilizzate per dare una boccata di ossigeno alle nostre città asfissiate se solo volessimo deciderci a fare a meno del rombo di quegli aggeggi che ci piacciono tanto ma che ci fanno anche tanto male alla salute. L’abbiamo fatto per le sigarette, possiamo farlo anche per le automobili.



La cosa importante, comunque, è analizzare le soluzioni senza credere nè nei miracoli nè nei complotti. Ci sono tecnologie buone, altre meno buone, e alcune pessime. La scelta fra una SUV sprecona e inquinante e una microvettura leggera e pulita dovrebbe essere ovvia (ma, per qualche ragione, non lo è per tutti).









L’autore ringrazia il sig. Vito Ciavarella e per i suoi commenti e il sig. Sandro Kensan per la correzione di un errore di calcolo in una versione precendente. Segnala anche la discussione di Sandro Kensan sull’argomento, che si trova a http://www.kensan.it/articoli/Eolo.php. Kensan usa dati leggermente diversi da quelli usati qui, ma arriva a conclusioni sostanzialmente uguali.

Eolo l'auto ad aria va in fumo?

Eolo, l’auto ad aria va in fumo
La società licenzia i dipendenti
http://www.giornaletecnologico.it/hitech/200512/05/43932a0507aae/

Doveva essere l’auto capace di risolvere tutti i problemi di inquinamento delle grandi città europee e invece, non si sa per quale motivo, non vedrà mai la luce. Eolo, l’auto ad aria compressa in grado di percorrere ben 200 chilometri con un pieno che sarebbe costato all’automobilista poco più di 70 centesimi di euro, non vedrà mai la luce. La società italiana si difende scaricando di fatto le proprie colpe su chi non ha mai inviato i macchinari per produrre l’auto e su quelle persone che, pur dovendo, non hanno mai verificato i veri rendimenti della vettura.

Ma per quale motivo chi avrebbe dovuto avere tutte le ragioni di incassare milioni di euro da un’invenzione del genere ha abbandonato il progetto senza neppure tentare di portarlo a termine? In tanti sul Web puntano il dito contro le multinazionali del petrolio. Queste, infatti, sarebbero le uniche a subire ingenti danni economici dall’eventuale lancio di un tale sistema di locomozione.

>>>I video dell'auto ad aria

Intanto i soci della Eolo Auto Italia hanno perso la pazienza, e dopo aver investito circa 6 milioni di euro hanno deciso di far causa alla francese MDI. La società, infatti, si trova costretta a licenziare i suoi 74 operai tenuti per un lunghissimo periodo in cassa integrazione. "Abbiamo dato mandato a uno studio legale di citare la società in tribunale - ha detto Giuseppe Bussotti, presidente e amministratore dimissionario - perché non hanno rispettato il contratto". La causa, ha aggiunto Bussotti, dovrebbe svolgersi in Lussemburgo. Gli operai, ha spiegato Bussotti, "sono sul libro paga della Eolo, ma non sono stati pagati, perché ci sono queste difficoltà. Dobbiamo licenziarli: come possiamo pagare 74 persone senza produrre nulla?”. "Ci sono stati consegnati solo alcuni macchinari - ha detto l'ex presidente Giuseppe Martellucci - ma non le distinte dei pezzi, dunque non si è mai potuto produrre nulla".

La società "ha bisogno di sospendere il progetto in Italia", pur se la Eolo ha "un'evoluzione tecnica all'avanguardia" e "il motore è di grandi livelli – ha commentato Martellucci - ci basterebbe per andare sul mercato". Per Bussotti, invece, il problema principale è un altro. I tecnici della MDI "non sono mai stati in grado di dirci i veri rendimenti dell'Eolo", cioè di indicare l'effettiva autonomia dell'auto con un "pieno" d'aria. "Non sono un tecnico - ha aggiunto e concluso il presidente - ma secondo me non riescono ancora ad avere rendimenti importanti, non hanno ancora trovato il modo di trasformare e conservare la potenza. Le speranze di poter arrivare a produrre l'auto ci sono ancora, ma siamo onesti: è probabile che non potremo farlo".

E la MDI cosa sta facendo? La società francese, nei primi mesi del 2005, ha lanciato un nuovo prototipo ribattezzato non Eolo ma CATs (Compressed Air Technology Systems). L’auto, identica nella tecnologia al modello che sarebbe dovuto esser lanciato in Italia, vedrà la luce nel primo semestre del 2006 anche se, si legge sul sito ufficiale della casa, il planning non è ancora completamente definito. "In condizioni finanziarie sufficienti resteranno allora circa 12 mesi di lavoro sulla MiniCATs, prima di accelerare la fase d'industrializzazione".

Eolo l'auto ad aria, alcuni dettagli in un articolo del 2003, ma ancora non s'è vista e non s'è saputo più niente

tratto da http://www.ecplanet.com/canale/tecn...t/ecplanet.rxdf)

Eolo, auto ad aria compressa

di: Donata Allegri


Eolo è il nome della prima auto ad aria compressa, raggiunge i 100 Km/h ed ha una autonomia di 200 Km allamedia di 60 Km/h (oppure 10 ore di utilizzo in città). L'idea della Eolo, sviluppata da Guy Negre, già progettista di motori da Formula, è della MDI, che ha ceduto la licenza per costruzione e commercializzazione in vari paesi alla Eolo International, che ha girato per l'Italia alla Eolo Italia.




Il cuore dell'Eolo è costituito dal motore in alluminio, che non utilizza la combustione ma l'espansione d'aria, senza quindi l'uso di fiamma e senza superare mai i 40 °C. In questo modo si diminuiscono l'usura meccanica e la manutenzione, mentre aumenta la durata. L'aria che esce dal tubo di scarico è, oltre che priva di gas nocivi, molto fredda (arriva infatti -20 °C). L'assenza di combustione consente di impiegare come lubrificante olio alimentare. Il rifornimento d'aria compressa può avvenire attraverso compressori da 5,5 o 3 Kw integrati nel veicolo che permettono di fare il pieno, rispettivamente in 4 o 7 ore, collegandosi a qualsiasi presa di corrente.




L'aria viene stipata in quattro contenitori tubolari in fibra di carbonio, che trovano posto sotto il pianale dell'auto, la cui resistenza è stata testata fino a 750 bar; inoltre l'aria compressa non è infiammabile e non può quindi esplodere. Tra gli altri particolari degni di nota, l'impianto elettrico di nuova concezione con un solo filo che comanda tutti i dispositivi, la carrozzeria in fibra di resina (nel futuro sarà di estrazione vegetale, interamente riciclabile), i sedili in canapa.




La Eolo entrerà in produzione quest'anno (2003) e sarà asseblata a Broni, nell'Oltrepò pavese. La fabbrica che coprirà una superficie di ventimila metri quadrati, quattromila dei quali destinati all’impianto produttivo dove verranno assemblate ottomila vetture l’anno. All’interno dei capannoni, interamente realizzati con pannelli in fibra di resina vegetale riciclabile, lavoreranno 240 persone, tra cui anche i capireparto che attualmente stanno seguendo il il corso di formazione a Nizza.

che fine ha fatto EOLO l'auto ad aria?

EOLO, l'auto ad ARIA !!!!
(lettera che gira sul web)



La macchina ad aria compressa... finisce in una nuvola di fumo Il caso Eolo auto di Marco Pagani Guy Negre, ingegnere progettista di motori per Formula 1, che ha lavorato alla Williams per diversi anni, nel 2001 presentava al Motorshow di Bologna una macchina rivoluzionaria: la Eolo (questo il nome originario dato al modello), era una vettura con motore ad aria compressa, costruita interamente in alluminio tubolare, fibra di canapa e resina, leggerissima ed ultraresistente.

Capace di fare 100 Km con 0,77 euro, poteva raggiungere una velocità di 110 Km/h e funzionare per più di 10 ore consecutive nell'uso urbano.

Allo scarico usciva solo aria, ad una temperatura di circa -20°, che veniva utilizzata d'estate per l'impianto di condizionamento.

Collegando Eolo ad una normale presa di corrente, nel giro di circa 6 ore il compressore presente all'interno dell'auto riempiva le bombole di aria compressa, che veniva utilizzata poi per il suo funzionamento.

Non essendoci camera di scoppio né sollecitazioni termiche o meccaniche la manutenzione era praticamente nulla, paragonabile a quella di una bicicletta.

Il prezzo al pubblico doveva essere di circa 18 milioni delle vecchie lire,nel suo allestimento più semplice.

Qualcuno l'ha mai vista in Tv?

Al Motorshow fece un grande scalpore, tanto che il sito www.eoloauto.it venne subissato di richieste di prenotazione: chi vi scrive fu uno dei tanti a mettersi in lista d'attesa, lo stabilimento era in costruzione, la produzione doveva partire all'inizio del 2002: si trattava di pazientare ancora pochi mesi per essere finalmente liberi dalla schiavitù della benzina, dai rincari continui, dalla puzza insopportabile, dalla sporcizia, dai costi di manutenzione, da tutto un sistema interamente basato sull'autodistruzione di tutti per il profitto di pochi.

Insomma l'attesa era grande, tutto sembrava essere pronto, eppure stranamente da un certo momento in poi non si hanno più notizie.

Il sito scompare, tanto che ancora oggi l'indirizzo www.eoloauto.it risulta essere in vendita. Questa vettura rivoluzionaria, che senza aspettare 20 anni per l'idrogeno (che costerà alla fine quanto la benzina e ce lo venderanno sempre le stesse compagnie) avrebbe risolto OGGI un sacco di problemi, scompare senza lasciare traccia.

A dire il vero una traccia la lascia, e nemmeno tanto piccola: la traccia è nella testa di tutte le persone che hanno visto, hanno passato parola, hanno usato Internet per far circolare informazioni.

Tant'è che anche oggi, se scrivete su Google la parola "Eolo", nella prima pagina dei risultati trovate diversi riferimenti a questa strana storia.

Come stanno oggi le cose, previsioni ed approfondimenti:

Il progettista di questo motore rivoluzionario ha stranamente la bocca cucita, quando gli si chiede il perché di questi ritardi continui.

I 90 dipendenti assunti in Italia dallo stabilimento produttivo sono attualmente in cassa integrazione senza aver mai costruito neanche un'auto.

I dirigenti di Eolo auto Italia rimandano l'inizio della produzione a data da destinarsi, di anno in anno. Oggi si parla, forse della prima metà del 2006...

Quali considerazioni si possono fare su questa deprimente vicenda?

Certamente viene da pensare che le gigantesche corporazioni del petrolio non vogliano un mezzo che renda gli uomini indipendenti. La benzina oggi, l'idrogeno domani, sono comunque entrambi guinzagli molto ben progettati.

Una macchina che non abbia quasi bisogno di tagliandi né di cambi olio, che sia semplice e fatta per durare e che consumi soltanto energia elettrica, non fa guadagnare abbastanza.

Quindi deve essere eliminata, nascosta insieme a chissà cos'altro in quei cassetti di cui parlava Beppe Grillo tanti anni fa, nelle scrivanie di qualche ragioniere della Fiat o della Esso, dove non possa far danno ed intaccare la grossa torta che fa grufolare di gioia le grandi compagnie del petrolio e le case costruttrici, senza che l'"informazione" ufficiale dica mai nulla, presa com'è a scodinzolare mentre divora le briciole sotto al tavolo...

Monday, June 05, 2006

Afghanistan, la gallina dalle uova d'oro

Afghanistan, la gallina dalle uova d'oro Afghanistan - 24.5.2006

www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idc=0&idart=5461

Ricostruzione postbellica: una truffa da 15 miliardi di $ che rischia di ritorcersi contro Bush





Si potrebbe chiamarla ‘Afghanopoli’: una delle più colossali truffe della storia, tanto più grave perché spacciata per opera di bene e compiuta sulla pelle di un popolo che è stato prima bombardato e invaso, e ora viene imbrogliato. Parliamo della ricostruzione post-bellica dell’Afghanistan, un business da 15 miliardi di dollari in piena fase di espansione. Soldi nostri, soldi dei contribuenti occidentali, soldi che escono dalle casse degli Stati ‘donatori’ (Usa in testa) per finire in appalti a multinazionali occidentali (soprattutto statunitensi) ‘ammanicate’ con il potere politico, le quali, invece di spenderli per ricostruire e aiutare l’Afghanistan, se li intascano come profitti o li sprecano in fasulli progetti ‘di facciata’ ad uso propagandistico e in ‘spese di gestione’, vale a dire stipendi stratosferici, alloggi e macchine di lusso.

Una frode ad alta rendita economica e politica. “Qui in Afghanistan sono in corso sprechi e frodi di dimensioni enormi, un vero saccheggio condotto soprattutto da imprese private”, dice Jean Mazurelle, direttrice della Banca Mondiale a Kabul. “E uno scandalo: mai visto nulla del genere in trent’anni di carriera”.
Non è un caso che gli Stati Uniti, tramite USAID, siano il più grande donatore, con 3,5 miliardi di dollari. Non è altruismo, ma solo consapevolezza della convenienza a investire il più possibile in un business che rende molto sia in termini politici che economici. “La priorità non è il progresso dell’Afghanistan, ma l’apparenza di questo progresso”, ammette Peggy O’Ban, portavoce di USAID. “Non importano i risultati, importa ad esempio dimostrare che il governo Karzai è un buon governo”.

Il Louis Berger Group: propaganda per Karzai. Il più chiaro esempio di ciò è il fallimento del fondamentale programma di ricostruzione di scuole, cliniche e strade, affidato (per 665 milioni di dollari) al Louis Berger Group, azienda del New Jersey vicina all’amministrazione Bush, che per questo è diventata il primo ‘contractor’ di USAID. Termine di consegna: fine 2004, data delle elezioni presidenziali afgane che Washington voleva far vincere ad Hamid Karzai con la carta dei risultati della ricostruzione. “Era una scadenza politica”, ha dichiarato Marshall F. Perry, ex direttore del progetto. “Noi eravamo sotto pressione da parte di USAID, e loro lo erano da parte della Casa Bianca. Il risultato è stato che il progetto è finito nel caos”. Conclusioni confermate da Philip J. Bell, direttore della commissione per la ricostruzione afgana del Dipartimento di Stato Usa: “Gli esiti dei progetti più importanti, cliniche, scuole e strade, si stanno rivelando disastrosi”.

Scuole: poche, carissime e tutte da rifare. L’appalto era per 533 scuole e cliniche. Ne sono state consegnate solo 138, perché molte erano progettate sulla carta in zone impossibili: cimiteri, acquitrini, dirupi e zone sotto controllo talebano. In media queste strutture sono costate l’esorbitante cifra media di 250 mila dollari l’una, con punte di 600 mila dollari, come nel caso della scuola ‘modello’ con 20 classi di Kabul. Ma lo scandalo è che, nonostante questi costi esorbitanti, le strutture cadono a pezzi perché costruite con materiali scadenti, su terreni instabili, senza fondamenta. Tutto in barba alle regole, aggirate con il pagamento di mazzette alle società (sempre straniere) incaricate di certificare che i progetti siano a norma (realtà testimoniata in un video in cui viene pagata una tangente di 50 mila dollari ai controllori della CHF Inetrnational). Ecco alcuni esempi raccolti da inchieste giornalistiche e rapporti di agenzie indipendenti, riferiti in maggior parte al Louis Berger Group.

Cliniche che crollano, strade già distrutte. La scuola di Moqor, tra le montagne della provincia di Ganzi, è chiusa per il crollo del tetto che ha ceduto sotto il peso della neve: era un modello di tetto utilizzato solitamente per le costruzioni in California, dove nevica un po’ meno che sulle cime dell’Hundu Kush. Altre 22 scuole e 67 cliniche hanno avuto lo stesso problema. La clinica ‘modello’ di Qala-i-Qazi, vicino a Kabul, ha solo quindici mesi di vita ma è già in rovina: soffitti sfondati dall’umidità e impianto idraulico completamente fuori uso.
La clinica di Larkhabi, nella provincia settentrionale del Badakshan, è finita ma è chiusa perché verrà abbattuta per pericolo di crollo, essendo stata costruita su una frana in una regione altamente sismica.
Stessa sorte toccherà alla clinica ‘modello’ di Kabul, costata 324 mila dollari, ma costruita in barba alle norme antisismiche.
La strada Sar-e-Pol– Shebergan, costata 15 milioni di dollari, era stata promessa in campagna elettorale da Karzai. Le centinaia di operai afgani prendevano 90 dollari al mese per lavorare 10 ore al giorno 7 giorni su 7. Alcuni sono morti sul lavoro. Chi protestava veniva cacciato. Gli ingegneri della Berger prendevano invece 5 mila dollari al mese. Oggi il manto asfaltato è completamente distrutto e nessuno provvede alla manutenzione, tanto le elezioni sono passate. Ma quel che è peggio è che la strada ha interrotto i canali di scolo e di irrigazione in questa zona piovosa, provocando allagamenti e crolli delle abitazioni di argilla costruite nelle vicinanze e distruggendo l’agricoltura locale.

DynCorp: la tragica farsa della lotta alla droga. Ma non è solo il Louis Berger Group a combinar guai.
Il programma di sradicamento delle piantagioni di papaveri da oppio era stato appaltato per 290 milioni di dollari alla compagnia, pure questa texana, DynCorp. L’obiettivo era distruggere 15 mila ettari di coltivazioni, ma l’impopolarità dell’operazione ha portato al suo sostanziale blocco per evitare che lo scontento popolare si ritorcesse contro il governo Karzai e la presenza straniera. Così, dopo aver distrutto solo 220 ettari in totale (al prezzo di decine di contadini uccisi dalla polizia impiegata nelle operazioni di sradicamento), alla fine del 2004 la DynCorp ha provato la strada delle fumigazioni aeree clandestine, abbandonate dopo aver prodotto malattie tra i contadini e il bestiame, distruggendo anche orti e piantagioni legali. In compenso, i 290 milioni di dollari sono finiti negli stipendi ai dipendenti stranieri della DynCorp (compresi tra gli 8 e 30 mila dollari al mese), nei loro lussuosi fuoristrada (da 120 mila dollari l’uno) e nei loro principeschi alloggi a Kabul, con tanto di catering diretto dagli Stati Uniti.

Chemonics: un’assurda ricostruzione agricola. La ricostruzione del settore agricolo è invece stato affidato alla Chemonics International Inc. al costo di 273 milioni di dollari. I risultati sono questi: grandi serre all’americana crollate sotto il peso della neve, silos vuoti perché i contadini non si fidano a metterci dentro i loro prodotti per paura dei ladri, mercati agricoli deserti perché i contadini che dovevano usarli sono andati in rovina per colpa della stessa Chemonics, che aveva consigliato loro di produrre tutti verdure, con l’effetto di abbattere i prezzi nella regione e far fallire i coltivatori. Ma la chicca sono i canali d’irrigazione costruiti nella provincia di Helmand, dove il 90 per cento dei campi sono coltivati a papavero da oppio: dopo l’intervento della Chemonics, la produzione d’oppio in Helmand è sensibilmente migliorata.

Stampa addomesticata e mp3 per promuovere la democrazia. Dulcis in fundo, i 56 milioni di dollari di ‘aiuti’ americani all’Afghanistan andati al Rendon Gruop, azienda di Washington strettamente legata a Bush, incaricata di “promuovere l’immagine del governo Karzai e degli Stati Uniti sulla stampa afgana”, attraverso bustarelle pagate ai giornalisti locali perché pubblichino notizie positive e tralascino quelle negative e critiche.
Ma i soldi spesi meglio rimangono senza dubbio gli 8,3 milioni di dollari che USAID ha dato a Voice for Humanity, piccola azienda del Kentucky legata al presidente della commissione parlamentare che approva i bilanci di USAID, senatore Mitch McConnel, per finanziare la distribuzione nei villaggi afgani di 65.800 lettori mp3 da 50 dollari l’uno, contenenti messaggi volti a “promuovere la democrazia” e il sostegno al governo Karzai.

Gli afgani hanno capito e stanno perdendo la pazienza. Come non dare ragione al dottore afgano Azizullah Safar: “E’ giusto che sappiate che i soldi che i vostri governi potrebbero spendere per i vostri bambini, per le vostre scuole e per i vostri ospedali sono stati semplicemente tutti buttati via”.
Per la comunità internazionale, Stati Uniti in testa, l’Afghanistan è una grande gallina dalle uova d’oro, un posto dove venire, dare una mano di vernice su un muro marcio, presentare un conto gonfiato che nessuno controllerà mai e incassare.
Ma gli afgani, che all’inizio si sono mostrati pazienti e fiduciosi, oramai hanno capito che degli stranieri non c’è da fidarsi perché dicono bugie, perché pensano solo al proprio tornaconto. E hanno cominciato quindi a guardare con occhi diversi chi, da tempo, diceva queste cose: la resistenza armata talebana, che non a caso si dimostra di giorno in giorno più forte.

Enrico Piovesana

Sunday, May 28, 2006

"Il burattinaio" (alias Luciano Moggi) da Piedi puliti di Leonardo Coen, Peter Gomez (copyright Garzanti Libri, 1998, 2006).

ecco il capitolo "Il burattinaio" (alias Luciano Moggi) da Piedi puliti di Leonardo Coen, Peter Gomez (copyright Garzanti Libri, 1998, 2006).


Il Burattinaio


Anche per lui la vera rivoluzione era stata l’Olanda di Cruijff. Veder finalmente giocare una squadra a tutto campo, con attaccanti e difensori che si scambiavano di ruolo, pronti a lasciare l’uomo per andare a coprire la zona, gli aveva suscitato una profonda emozione. E ancora di più lo aveva colpito scoprire che i calciatori, quegli atleti immensi, anche fisicamente molto più alti e veloci dei campioni nostrani della pelota, la sera in ritiro non ci andavano da soli. Con loro c’erano mogli, fidanzate, amanti. Donne bellissime, dalle caviglie sottili e dallo sguardo azzurro e impenetrabile. Donne che facevano sognare. Ma che a lui mettevano quasi la tremarella addosso.
Quante volte aveva discusso dell’Olanda. E quante volte, davanti a un bicchiere di buon rosso, la conversazione era man mano scivolata verso il basso. Verso le virili prodezze degli olandesi che forse avrebbero potuto trasformare anche un uomo come lui, bonariamente definito dagli amici un «mediano d’ingombro», in un campione.
Correvano i primi anni Settanta. E Luciano Moggi da Monticiano (Siena) aveva ormai capito che, superata abbondantemente la boa dei trent’anni, il calcio, quello giocato, gli era definitivamente precluso. Anche una cura olandese a base di bionde e allenamenti non avrebbe mai potuto portarlo in campo.
Contro l’anagrafe non c’era nulla da fare.
La sua vita, guardata dalla stazione di Civitavecchia, dove era ormai arrivato a ricoprire il grado di capo gestione, sembrava dovergli riservare solo treni, binari e tanta noia.
Del football però sapeva tutto. Ogni mattina divorava i quotidiani sportivi, e poi le pagine sportive di quelli nazionali. Così mentre in stazione smistava pacchi (pare che quella fosse la sua specialità), ripensava alle formazioni, agli arbitri, agli allenatori e soprattutto ai presidenti.
Il suo più caro amico Graziano Galletti, un panettiere di Grosseto, commentava con lui le loro imprese. Insieme andavano indietro nel tempo ricordando la mitica Inter di Angelo Moratti e del suo Richelieu, quell’Italo Allodi che per Luciano, futuro direttore generale della Juventus di fine millennio, sarebbe diventato una specie di modello.
Nei Bar Sport della penisola, è vero, i tifosi non ricordavano solo le gesta di Mariolino Corso, «il piede sinistro di Dio», che ancora caracollava qua e là per i campi schiacciato dal peso inesorabile del tempo. Tra loro c’era anche chi continuava a parlare di regali degli arbitri. I più cattivi, in genere i milanisti, sostenevano addirittura che a far da contraltare ai favori dei fischietti ve ne fossero stati altri, inconfessabili, resi dal vecchio Moratti ai direttori di gara. I tifosi favoleggiavano di terne arbitrali che prima delle partite di coppa dell’Inter si erano ritrovati al polso pesanti orologi d’oro. Oro massiccio, come massiccio era stato il catenaccio di quella squadra da favola, pronta a uccidere in contropiede velleità e speranze di qualsiasi formazione, vincendo campionati e Coppe dei Campioni.
Ma dalla curva nerazzurra si era sempre sollevata pronta una risposta. Quasi con un ruggito il popolo interista non smentiva, ma urlava al mondo la sua rabbia e parlava di altri arbitri e di altre squadre: prima tra tutte quella di Torino, l’odiata Juventus, dove, stando alla leggenda, le giacchette nere arrivavano allo Stadio Filadelfia a piedi e ne uscivano su fiammanti Millecento. Insomma, per gli interisti pensare che il presidente, pur di portare in alto gli undici eroi di San Siro, fosse disposto a combattere ad armi pari con gli altri padroni del pallone era solo un motivo in più d’orgoglio. Non un disonore.
Che tempi. E che calcio. Un calcio immaginato, più che vissuto. Un calcio idealizzato ascoltando per radio la voce di Nicolò Carosio e Nando Martellini. Un calcio sognato leggendo sui giornali i resoconti di Gianni Brera e di Gino Palumbo. Allora non c’era la diretta tv. Tutto era rimesso ad altri, a pochi privilegiati mediatori di una magia che era possibile provare solo di tanto in tanto andando allo stadio.
Luciano quella magia sentiva di averla nel sangue e nelle ossa. Era come una perniciosa febbre malarica che lo colpiva puntualmente ogni domenica.
Fu così che per sconfiggerla Moggi provò a vivere di football. Prima proponendosi come osservatore proprio per la Juve dove era approdato, tramontata l’era Moratti, il Richelieu Allodi, sicura garanzia di vittorie a ripetizione. Poi trasferendosi nella capitale, dove di squadre ce n’erano addirittura due: la Roma e la Lazio. Lì Luciano non ci mise molto a capire che nel mondo del pallone c’era posto per tutti: anche per uno come lui.
Ad assumerlo fu la Roma, ma ben presto cominciò a occuparsi anche della Lazio. Per Moggi, che amava il calcio prima di ogni cosa, dedicarsi a una sola squadra era infatti troppo poco. Anche perché il vecchio presidente di Lupi giallorossi, Dino Viola, abituato com’era a trattare da pari a pari con «gentiluomini» dal calibro di Giulio Andreotti o del suo braccio destro Franco Evangelisti, lo guardava sempre dall’alto in basso. E non per una questione fisica.
A Luciano infatti restava ancora appiccicata addosso un’etichetta da parvenu della pelota. E anche se Viola non disdegnava la compagnia di altri parvenu come i palazzinari fratelli Caltagirone, con Moggi, ricco di spirito e di talento ma povero di contanti, il presidente dimostrava sempre una certa ritrosia. Tanto che, raccontano, quando lo incontrava gli dava il gomito al posto della mano.
Luciano Moggi però non se la prendeva.
I suoi amici era destinato a trovarli altrove: a bordo campo, in campo e soprattutto nei ristoranti. I collaboratori migliori grazie ai quali, di lì a qualche anno, concluderà affari miliardari, li ha pescati qui. È il caso per esempio di Pino Pagliara, un pizzaiolo emigrato in Inghilterra, prima a Londra e poi a Manchester, ora grande stratega delle operazioni di Luciano in Gran Bretagna. O di Vincenzo Morabito, ex gestore di una trattoria di Göteborg, che un giornale tradizionalmente poco tenero con i colori bianconeri come «Il Messaggero» ha incluso nell’elenco degli «agenti FIFA e procuratori» fidati di Moggi.
Ciro a Mergellina, Ilio e Urbani a Torino, La Cantinetta e l’Hotel Royal a Napoli: sono le salette riservate di locali come questi i veri uffici di Moggi. Uffici impenetrabili ai più, veri sancta sanctorum del calcio italiano, che contribuiscono a creare intorno a ogni trattativa un’atmosfera da leggenda. Il contratto di Del Piero è stato discusso nel tempio culinario della «Venerabile confraternita del baccalà alla vicentina», antica e poco segreta società veneta solita riunirsi al Due Spade, vicino a Vicenza.


SEXY-CALCIO

Juventus, Roma, Lazio, Torino, Napoli e poi ancora Torino. Di squadra in squadra la carriera di Moggi è in continua ascesa. Luciano cresce. Impara. E quando, dopo aver vinto scudetto e coppe varie sul ponte di comando della squadra di Maradona torna all’ombra della Mole Antonelliana, Moggi capisce anche che in epoca di Prima Repubblica il peso della politica può diventare decisivo. Ancor più decisivo di un buon giocatore o di un fischietto considerato di fiducia.
Il suo nuovo presidente Gian Mauro Borsano è amico di Bettino Craxi, grande tifoso del Toro. Moggi lo sa e, pur di emergere, decide di strafare. Inizia la Coppa UEFA. A Torino gli arbitri internazionali calano a frotte. I granata decidono così di ospitarli al meglio: grandi alberghi (l’Hotel Turin), grandi mangiate e soprattutto splendidi dopo cena.
In un clima da Folies Bergères, la squadra accumula vittorie su vittorie. Il Torino diverte il suo pubblico. Anche i fischietti si divertono. La sera al loro fianco hanno avvenenti interpreti. Donne da favola che, a seconda delle epoche, si sarebbero chiamate massaggiatrici, astrocartomanti, cocottes...
Finché, nel 1993, le notti brave garantite alle giacchette nere non fanno finire Moggi davanti ai magistrati. Il reato contestato a Luciano e al segretario generale della squadra Gigi Pavarese è addirittura di sfruttamento della prostituzione. Un’accusa che poi finirà in archivio per ragioni in buona parte tecniche.
La sexy-inchiesta nasce quando la Guardia di Finanza scopre in casa di Giovanni Matta, un anziano contabile del club, un’agenda sulla quale il puntiglioso ragioniere era solito annotare tutte le uscite in nero della società sportiva. I militari si insospettiscono leggendo una annotazione in cui Matta elenca i milioni spesi per «pubbliche relazioni-accompagnatrici arbitri». Poi capiscono tutto non appena si imbattono in un appunto molto più esplicito: «Una certa Adriana R. chiede 6,3 milioni, è una puttana, mi dicono di pagarla». Matta, convocato in Procura, non ci mette molto a confessare: «Ogni terna arbitrale tra un omaggio e l’altro ci veniva a costare una decina di milioni».
Borsano conferma, ma scarica tutto su Moggi. E Luciano? È in difficoltà. Per difendersi ricorre al mestiere e cerca di spedire la palla in corner. «Io credevo che fossero delle semplici interpreti», balbetta. «E poi quando capii che facevano, ordinai di non pagarle più».
Moggi ammette però altri regali ai fischietti, precisando che «non superavano il milione di lire a testa. È una prassi normale, non l’ho inventata io».
Comunque stiano le cose, un fatto è certo. Gli arbitri, deliziati dalla compagnia femminile, fanno come i giocatori di quell’Olanda di quel calcio totale che tanto aveva impressionato Moggi quasi vent’anni prima: arbitrano meglio.
In quella stagione i risultati per il Toro sono eccellenti. Nel 1991- 92 la squadra di Borsano, confortata in attacco dalle prestazioni di Gianluigi Lentini, arriva in finale di Coppa UEFA e perde per un soffio contro l’Ajax.
Anche le prestazioni degli arbitri sono di un certo rilievo. Una delle lucciole ingaggiate dal Toro, la Adriana R. dell’appunto di Matta, ricorda di aver ricevuto una telefonata da Gigi Pavarese, segretario generale dei granata e attuale dirigente del Napoli, il «quale si presentò come segretario di Moggi che avevo conosciuto al ristorante». E aggiunge : «Pavarese mi chiese la disponibilità per il dopo-cena. Sono una donna di mondo, sono abbastanza adulta per capire che era richiesta una prestazione amorosa...».
Finiscono così nel mirino della magistratura tre partite in cui Adriana e due amiche si sono date da fare per rendere più piacevole il soggiorno torinese delle terne arbitrali di Coppa. Tre incontri tutti regolarmente vinti dal Toro: Torino-Reykjavik (arbitro il croato Colic), Torino-Boavista (arbitro l’inglese Hackett) e Torino-AEK di Atene (arbitro il belga Goethals).
Nel primo caso le «interpreti» si sono limitate a essere tali. Il croato Colic, dopo una cena al ristorante, al momento della buona notte ha regalato ad Adriana e alle sue amiche un mazzo di rose. Negli altri due l’allenamento prepartita è proseguito in notturna e le sparring partner dei fischietti hanno preteso dalla società granata due milioni a testa più le spese.
Le carte processuali raccontano che il loro intervento sugli arbitri era, per così dire, «a sorpresa». Le ragazze infatti si presentavano all’Hotel Turin dove venivano loro consegnate le chiavi delle stanze dei direttori di gara e si facevano trovare in camera pronte all’uno contro uno.
Il 18 marzo del ’94 Adriana racconta ai magistrati: «Quando arrivammo in camera c’erano già i bagagli degli ospiti che ci raggiunsero dopo un quarto d’ora, venti minuti. Non so dire se si aspettavano di trovarci lì. Ma secondo me no».
Anche gli arbitri sono uomini. E così la bella Adriana può assicurare: «No, vedendomi in camera, non fui presa per una ladra. Non fui cacciata. Il signore che avevo davanti però non mi chiese chi ero. Mi ricordo solo che parlava francese, ma io e lui non conversammo molto. Bevemmo un drink e poi facemmo quello che avevo pensato...».
Interrogato, Pavarese sostiene che Adriana ha «equivocato l’incarico assegnatole». Moggi continua a insistere dicendo di aver saputo tutto a cose fatte.
I magistrati a questa versione credono poco.
Nel decreto di archiviazione della sexy-inchiesta, definita senza mezzi termini una «poco edificante vicenda», il giudice ricorda come «la necessità di interpreti o di altre figure delegate alle pubbliche relazioni non fu sicuramente una necessità, potendo contare il Torino Calcio su una struttura organizzativa di sicura efficienza che già annoverava validi collaboratori con funzioni d’interprete». Ma anche se «due episodi di congiunzione carnale» vengono provati, le accuse di favoreggiamento della prostituzione contro Luciano e il fido Pavarese finiscono in archivio. Due sole prestazioni, spiegano i magistrati, «sono un numero troppo modesto per poter sostenere un discorso di continuità, presupposto oggettivo indispensabile per poter parlare di favoreggiamento della prostituzione». Inoltre ai due indagati va concesso il beneficio del dubbio: non c’è la prova che nei discorsi tra Pavarese e Adriana «sia intervenuto l’esplicito invito ad assecondare gli arbitri nei loro desideri».
Sul piano sportivo invece sembra tutta un’altra musica. Per il giudice, «l’iniziativa di rendere più ameno il soggiorno degli arbitri a Torino, in occasione delle partite di Coppa UEFA, qualunque siano state le reali finalità dell’ingaggio di avvenenti signore addette al dopo cena, rivela una chiara volontà di addolcire la severità degli arbitri, rendendoli obbligati verso la città che li ospitava con tanto riguardo e sicuramente meno liberi nell’esercizio del loro incarico». Forse la «sudditanza psicologica» di cui si parla così spesso nel mondo del calcio nasce anche così.
Le squalifiche sembrano scontate. Ma non sarà così. Anche se nel decreto di archiviazione dell’inchiesta penale il giudice definisce sin troppo «evidente» la «lesione degli interessi sportivi, nonché la frustrazione delle regole che animano il gioco del calcio», l’UEFA, dopo aver garantito un severo ripulisti, non interviene. «Il severo giudizio morale» espresso dalla magistratura ordinaria non sarà sufficiente a smuovere i padroni del pallone.
Ma tanto basta. Si apre l’inchiesta sul Torino e sulla gestione Borsano (che nel frattempo è diventato protagonista di fallimenti a go-go). Il buon Luciano cambia aria. Ricordandosi che in fondo era stato un capo gestione (qualifica equivalente a quella di capo stazione) e che quindi non poteva permettersi di sbagliare treno, Moggi abbandona i granata mentre viaggiano sicuri verso la rovina. L’aveva già fatto negli anni Ottanta quando aveva lasciato un altro Torino, quello del presidente Sergio Rossi, per il Napoli di Maradona, a sua volta salutato, come vedremo più avanti, ai primi accenni di tempesta.
Moggi ritorna così a Roma, alla corte del neopresidente Franco Sensi portando (apparentemente) in dote due giocatori di peso: Paulo Sousa e il difensore del Napoli dello scudetto Ciro Ferrara. I giallorossi esultano. Ma per poco.
Nel frattempo è diventato amministratore delegato della Juve un manager abituato a fare i conti più con i bilanci che con le ragioni del cuore: Giovanni Giraudo, braccio destro di Umberto Agnelli, tifoso torinista. Giraudo decide di affidarsi a Moggi e al suo staff. Luciano, nei campi di calcio lo sanno anche i pali delle porte, è un mago, anzi qualcosa di più. E così Giraudo lo sceglie come direttore generale, anzi come direttore ombra. Prima di potergli affidare ufficialmente l’incarico, è infatti necessario attendere la chiusura della sexy-inchiesta. Moggi fa buon viso a cattivo gioco: si sistema in un ufficetto e attende paziente il decreto di archiviazione.
Sensi grida al tradimento. E grida al tradimento anche il popolo della Juve. La curva, infatti, Giraudo se lo ricorda bene. Nella mente dei tifosi c’è ancora l’immagine arcigna di quell’uomo dagli occhi di rana che per quarant’anni allo stadio ci era andato sì tutte le domeniche, ma sempre con al collo una sciarpa granata. Certo, del Toro Giraudo non era mai stato un dirigente, ma ne è sempre stato un supporter doc. E che dire poi di Moggi, che quando lavorava per Borsano aveva quasi fatto vincere agli odiati cugini la Coppa UEFA?


SILENZIO STAMPA (1)

Già, che dire? Niente. Perché dopo le contestazioni arrivano anche Ferrara e Sousa. E poi le vittorie a ripetizione della squadra diretta con maestria da Marcello Lippi.
La piazza si placa. La Juve vince e gioca in modo straordinario. Solo Sensi tenta di protestare ancora. Ma non serve. Anzi, forse è controproducente. In casa c’è chi lo osteggia: Fabrizio Carroccia, alias «Mortadella», simpatico capetto degli ultras giallorossi, nemico suo e amico di Lucianone Moggi.
Qualche domanda se la pongono invece i giornalisti. Marco Travaglio, nel 1994 cronista della «Voce» di Indro Montanelli, scrive che la campagna acquisti della Juve è stata diretta da Moggi, il quale a causa delle imbarazzanti indagini giudiziarie non può comparire in prima persona. Giraudo invita Travaglio a colazione. Gli dice che non è vero, ma quando il cronista domanda un comunicato ufficiale di smentita da parte della società, il dirigente juventino nicchia. Prende tempo.
Quell’incontro segna, forse, l’inizio di un periodo di rapporti tesissimi tra la stampa sportiva e i vertici dirigenziali della Vecchia Signora. Gli attacchi si fanno ripetuti. Tanto che il 12 settembre del 1996 Giraudo e Moggi pensano bene di organizzare una cena riparatrice. Sono presenti una dozzina di giornalisti. I manager juventini sembrano tranquilli. Di fatto giocano in casa. Come terreno dell’incontro è stato scelto il ristorante Da Ilio Due Mondi, dove Moggi sfida spesso a carte un altro Luciano: Nizzola, il presidente della Federcalcio, conosciuto nei primi anni Ottanta, quando entrambi erano dirigenti del Toro. Dopo qualche bicchiere volano parole grosse. La cena riparatrice si trasforma in una rissa verbale. Giraudo, raccontano i presenti, se la prende con un cronista di «Tuttosport» che gli risponde per le rime. E poi attacca Travaglio, che non c’è: «Fa del giornalismo schifoso, vergognoso, inaccettabile. Ho fatto in modo che non scrivesse più. Il suo è un giornalismo alla Pecorelli...». Comunque siano andate le cose, l’autogol è clamoroso. Travaglio infatti, informato dai colleghi, presenta un esposto in Pretura.
Vale la pena di raccontare la vicenda nei dettagli, basandosi sulle carte processuali, visto che la geniale iniziativa distensiva della Juve è diventata oggetto di un’inchiesta penale. I cronisti sfilano come testimoni davanti ai magistrati. Giraudo nega di aver paragonato Travaglio a Mino Pecorelli, il giornalista iscritto alla P2, da molti considerato un «ricattatore» e ucciso, secondo la Procura di Perugia, per ordine di Giulio Andreotti. Moggi nella sua deposizione assicura: «Non ho sentito assolutamente Giraudo fare cenno a un giornalismo alla Pecorelli. La discussione era sì accesa, ma l’importanza del contendere non era tale da far trascendere in accuse o minacce».
Malgrado questa autodifesa, si giunge al rinvio a giudizio per due. Il sostituto procuratore presso la Pretura, Patrizia Gambardella, manda alla sbarra Giraudo per diffamazione e Moggi per favoreggiamento. A suo avviso il direttore generale della Juve ha tentato di salvare il suo amministratore delegato «rendendo false dichiarazioni» agli investigatori. Il processo sarà celebrato nel 1999.
La débacle della cena riparatrice sortisce però effetti ancor più perniciosi. I giornalisti, i maledetti giornalisti che comunicano al mondo dei tifosi ogni palpito, emozione, gesto, frase dei campioni bianconeri, incominciano a non starci più. Gli articoli si fanno più «cattivi» o, a seconda dei punti di vista, più veritieri.
Dopo averci provato con le buone, la Vecchia Signora cambia registro. Scattano le «sospensioni». Ad alcuni cronisti viene impedito l’accesso agli spogliatoi, quello agli allenamenti e il contatto con i giocatori. È ovvio: i calciatori bianconeri, come qualsiasi altro cittadino, sono liberi di parlare con chi vogliono. Ma dal punto di vista dei rapporti con l’opinione pubblica sventolare cartellini gialli e rossi davanti a chi usa penna e taccuino non è un gran bella trovata.
Alla fine anche i manager juventini se ne rendono conto. Quando, nel campionato del ’97-98, errore arbitrale dopo errore arbitrale, quasi tutti i media danno addosso alla squadra, i dirigenti decidono il black out assoluto. È il silenzio stampa, un po’ per dare tranquillità ai campioni, un po’ per evitare gaffes e polemiche.
Ma ormai è tardi. Il caso Juventus è ormai un caso. E, come tutti i casi di italica memoria, finisce in tribunale. Non però davanti ai giudici penali, dove c’è il rischio d’incontrare un pubblico ministero che, magari partendo dagli articoli di giornale, decide di aprire un’inchiesta, con tanto di pedinamenti, intercettazioni telefoniche e analisi di bilancio. Il giudice che si dovrà occupare della questione Juve-arbitri sarà quello civile.
L’avvocato Vittorio Chiusano, presidente della squadra bianconera e noto al mondo come «l’avvocato dell’Avvocato» (Gianni Agnelli), il 6 marzo cita per danni «Il Messaggero» e un suo corsivista, Roberto Renga. Chiusano pretende un risarcimento di 10 miliardi per una serie di articoli comparsi nel mese di febbraio sul quotidiano romano: 10 miliardi, appena 2 meno del premio che la Lega Calcio riserva ai club vincitori del campionato.
Viste con il senno di poi, le «colpe» del «Messaggero» sono chiare. In febbraio, quando a lamentarsi degli arbitraggi erano soprattutto le squadre romane, Renga aveva analizzato il comportamento di alcuni fischietti non solo durante le partite in cui giocavano i bianconeri, ma anche durante i match che vedevano impegnate le dirette concorrenti della Juve allo scudetto. Ed era giunto alle conclusioni cui sarebbero arrivati con durezza molti altri osservatori dopo la partita scandalo Juve-Inter.
Il 13 febbraio per esempio aveva scritto: «Tra la notte di mercoledì e il pomeriggio di ieri si è calcisticamente consumato il delitto perfetto. Mercoledì: rigore tolto al Brescia, rigore e espulsione scippati all’Inter, rigore regalato alla Roma, cartellino giallo a Mihajlovic che salterà così la partita di domenica prossima. E contro chi giocherà la Sampdoria? Ma via è facile, la Juventus». Renga proseguiva interrogandosi sulle designazioni arbitrali e concludeva esprimendo molte perplessità sul futuro della gestione Nizzola.
Dopo quel pezzo Renga non aveva riposto la penna nel cassetto. Aveva continuato a scrivere e, nei giorni successivi, se l’era presa anche con Moggi ricordando come suo figlio Alessandro fosse procuratore di «ottanta giocatori, sparsi in vari club, anche in quelli che la domenica vanno ad affrontare la Juventus di Moggi senior». Per lui quello era un lampante, arcitaliano, banalissimo problema di conflitto d’interessi.
Interventi duri, quelli del «Messaggero». Ma sempre nel più puro stile del corsivismo se non sportivo, almeno politico. Uno dopo l’altro, sia pure con la faziosa acrimonia del tifoso, il quotidiano di Roma elenca, nei suoi articoli, gli eventi e solleva degli interrogativi.
La risposta non si fa attendere. Arriva il 6 marzo 1998 dall’avvocato dell’Avvocato. Nel suo atto di citazione a giudizio Chiusano spiega che il club bianconero, «il quale ha in progetto di emettere azioni da quotare in borsa», è rimasto vittima di una campagna stampa «arrecante ingiustamente danni rilevanti, patrimoniali e non».
«È naturale», scrive Chiusano, «che il mercato borsistico londinese (Londra è una delle principali piazze finanziarie del mondo) che potrebbe accogliere la emissione e la quotazione delle azioni Juventus ne penalizzi il valore se si mette in dubbio che i risultati – e quindi gli incassi – dipendano da illeciti più che dai meriti sportivi e che è possibile o probabile un accertamento di tali illeciti, addirittura in sede penale, di questi ultimi con ovvie conseguenze a carico della Juventus. È questo appunto anche il parere di importati banche d’affari esperte nell’assistenza per le quotazioni e i collocamenti in borsa». La reazione è insomma durissima. La Vecchia Signora non tollera neanche l’ombra di un sospetto. Mancano ancora 51 giorni a quel fatidico Juve-Inter.
Il direttore del «Messaggero» Pietro Calabrese non si scompone: «L’avvocato Agnelli avrebbe chiuso e risolto la vicenda con una battuta spiritosa. Con Giraudo e Moggi, invece, si finisce in mano agli avvocati. Non mi pare che sia nello stile Juventus». La «campagna» continua.
Moggi, invece, sembra sempre più compreso nella sua parte di grande vecchio. Prima fa la vittima: «Siamo soli contro tutti, mentre le squadre romane hanno il privilegio di sentirsi protette», tenta di rilanciare. Poi, quando gli viene domandato chi protegga le supertartassate Roma e Lazio, si chiude a riccio. E si rifugia in un linguaggio per iniziati: «I messaggi che ho mandato sono arrivati agli indirizzi giusti». Che cosa vuol dire? Boh. Misteri del calcio italiano.
Il padrone intanto è sempre più lui. Adesso anche chi non si era mai interessato di sport lo chiama «re del calcio mercato». I giornali lo paragonano a Clinton. Non tanto per quella vecchia storia di procaci donnine, ma perché, scrivono i quotidiani, va in giro con due telefonini. Nei periodi caldi, quando bisogna fare le squadre, c’è chi sostiene di averlo visto ricevere in un solo giorno 625 chiamate.
Numeri da capogiro, come da capogiro sono i contratti conclusi dai giocatori della sua scuderia (da non confondere con la sua scuderia di cavalli). Moggi rappresenta infatti, secondo i quotidiani sportivi, una trentina di campioni del calibro di Di Livio, Fonseca, Conte, Tacchinardi, Zidane, Davids, Totti, Petruzzi, Scapolo, Amoroso, Fresi, Galante, Ravanelli, Boksic, Cruz, Crespo, Cannavaro, Thuram e Mihajlovic... Fatti due conti, sono circa settecento miliardi di carne da pallone: una «internazionale» del calcio che costringe tutti i presidenti a trattare con lui. Non a caso Moggi è consulente anche di Moratti e Cragnotti, proprietari di Inter e Lazio, le due squadre dirette concorrenti della Juve. Un bell’intreccio. Anche Michele Santoro, in una puntata di Moby Dick, è sbottato: «Ma questo è un conflitto d’interessi».

(da Leonardo Coen, Peter Gomez, Leo Sisti, Piedi puliti, Garzanti, Milano, 1998)

Thursday, May 25, 2006

INDRO MONTANELLI , IL BERLUSCONISMO E LA CAMPANA A MORTO DELLE ISTITUZIONI

Anni addietro, un noto-per chi perlomento legge i quotidiani- giornalista : Indro Montanelli ,certo non un bolscevico o ex PCPDSDS (come si esprime durante le sue teleprediche il giaculatore peronista di Arcore) , dopo aver avuto modo di conoscere bene i metodi del suo ex editore Berlusconi,intervistato nel 2003 da quell'altro Trotzkista di Enzo Biagi (per il B tutti gli esseri liberi sono comunisti )parlò della "facilità, la spontaneità con cui Berlusconi mente, e con cui le sue menzogne, a furia di ripeterle, evidentemente vengono bevute dagli altri" , disse anche : "la volgarità, la bassezza di questa Italia qui non l'avevo vista né sentita mai. Il berlusconismo è veramente la feccia che risale il pozzo".
Parole di un giornalista Libero (non come il patetico giornaletto del signor Feltri) ,giornalista che non aveva nulla da temere da eventuali estromissioni dal posto di lavoro. Montanelli , uno di destra, liberale verace, si accorse della cancrena che si stava propagando in Italia ,dell'indole di un vero illiberale ,di un dittatoruncolo che ha introdotto in italia un clima di costante lacerazione, di continua tribuna elettorale, grazie alla mostruosa concentrazione televisiva, con cui con fare alla Goebbels , ripete all'infinito- direttamente o per interposta persona- i suoi refrain sconcertanti, devastanti per la convivenza civile e le istituzioni, come la populista ossessione per la riduzione delle tasse costi quel che costi, anche un buco pauroso nei conti pubblici, anche la disgregazione sociale, pur di accattare quel bacino di voto di gente che dovrebbe vivere alle Cayman e non in Italia, insieme ai compagni di merende evasori fiscali.
Certo, in italia ci sono stati eccessi burocratici che hanno asfissiato le imprese, certo, i soldi presi con le imposte(tasse e tributi) andrebbero usati in modo più efficiente,magari con meno esprechi e clietelismi maneggioni di destra come di sinistra , clientelistmi che ci sono nella Sicilia di "VasaVasa" Cuffaro come nella Campania di Bassolino , sarebbe bello vedere la fine degli intrallazzi familisti in stile GEA , la fine del familismo dei figli di , la fine delle dinastie professionali dei Notai o Avvocati etc, questo lo vogliamo tutti, credo. Certo sarebbe bello vedere meno facce di lacchè ,di destra come di sinistra , ma non credo che quest'opera di pulizia possa farla uno che in parlamento si è circondato di avvocati da lui stipendiati che da una parte lo difendevano in processo e dall'altra gli hanno scritto le leggi da applicare ai processi suoi, non senza suo vantaggio e dell'amico neo galeotto Previti,con qualche vantaggio in meno, nonostante tutti i tentativi. L'italia non ha bisogno di millantatori, di pallonari, di arraffoni della credulità popolare, di gente che vinse le elezioni, oltre che vantando i propri scudetti e successi imprenditoriali di origine craxiano piduista in un mercato senza regole e con finanziamenti BNL"oltre ogni merito creditizio" (come da commissione Anselmi sulla P2), prevedendo una assurda crescita del PIL al 3% sulla quale, contro ogni buon principio contabile di prudenza, basarono una politica fiscale già discutibile , ma dinamitarda e scriteriata per il fatto che la crescita prevista era del tutto impossibile dopo l'11 settembre e politiche internazionali conseguenti su cui è meglio stendere un pietosissimo velo, e anche visti gli sviluppi del neocapitalismo della Cina , capitalismo che quando fa comodo si definisce panacea per tutti mali e quando colpisce i propri interessi -petroliferi e commerciali- diventa il mostro schiavista , il nemico, il male, ed il male nero, rosso o giallo che sia, fa sempre comodo, la paura rinsalda il gagliardo spirito nazionale . Quando la paura e la chiacchiera -sempre tendenziosa- lascia il posto alla lucida razionalità che sarebbe necessaria per uscire dal pantano in cui ci troviamo, quando il qualunquismo e le frasi fatte da bar sport, sempre le stesse, si precepiscono costanti e pesanti , sconcertanti come una campana a morto delle istituzioni, come i fischi e gli insulti addosso ai senatori a vita , ora anch'essi definiti comunisti perchè liberi , come i recentissimi insulti ad un ministro- Rosy Bindi che difende la Laicità dello Stato ,e che si è sentita dare perciò della lesbica, da un maleducato tanghero della liberalissima e rispettosa destra italiana ,quella della "vamiggia" e del "bonde" (famiglia e ponte ,per gli altri italiani; a proposito : l'efficientissima Sicilia dei tanti caporali del centrodestra rientra nell'italia "pruduttiva" che vota a destra?)usando come argomento la sua "colpa" di non essere una bella e stupida come altre su cui è meglio tacere per carità umana. Quando si è caduti così in basso, non si può che risalire, speriamo bene, perchè scendendo più in basso l'ossigeno inizia a mancare .
CDEBORD
25/05/2006

Tuesday, May 23, 2006

"L'Italia di Berlusconi è la peggiore mai vista": RICORDANDO INDRO MONTANELLI

Montanelli: "L'Italia di Berlusconi
è la peggiore mai vista"
"Quell'uomo è una malattia: si cura solo con il vaccino
Una bella iniezione di Cavaliere premier per diventare immuni"

di LAURA LAURENZI

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MILANO - Sembra essere diventato il nemico numero uno del Polo. Berlusconi gli dà del bugiardo e dell'ingrato, Fini lo descrive come l'ennesimo giornalista "strumentalizzato" dalla sinistra, i giornali della destra portano il suo nome nei titoli di testa in prima pagina. La sua "colpa" è il tradimento: ha dichiarato di votare per il centrosinistra, ha partecipato alla trasmissione di Santoro, dove - capo d'imputazione gravissimo - ha persino dato ragione alla ricostruzione fatta da Marco Travaglio sulle vicende del Giornale. Indro Montanelli ha risposto con le sue armi: un editoriale al veleno sul Corriere della sera in cui restituisce l'accusa di mendacio al Cavaliere, gli replica punto per punto e chiosa: "Chiagne e fotte, dicono a Napoli dei tipi come lui. E si prepara a farlo per cinque anni di seguito". Dopo l'articolo, da ieri mattina il suo telefono non ha fatto che suonare.

"La cosa più impressionante - racconta Montanelli - sono state le telefonate anonime. Ne sono arrivate cinque una dopo l'altra, tre delle quali di donne. Non so chi avesse dato loro il mio numero, che è assolutamente introvabile. Dicevano tutte la stessa cosa: delle invasate che urlavano: lei che per vent'anni ha mangiato alla mensa di Berlusconi! Io, capirai? Come se io fossi stato mantenuto da Berlusconi".

Insomma, siamo alle minacce.
"Veramente la scoperta che c'è un'Italia berlusconiana mi colpisce molto: è la peggiore delle Italie che io ho mai visto, e dire che di Italie brutte nella mia lunga vita ne ho viste moltissime. L'Italia della marcia su Roma, becera e violenta, animata però forse anche da belle speranze. L'Italia del 25 luglio, l'Italia dell'8 settembre, e anche l'Italia di piazzale Loreto, animata dalla voglia di vendetta. Però la volgarità, la bassezza di questa Italia qui non l'avevo vista né sentita mai. Il berlusconismo è veramente la feccia che risale il pozzo".

Lei sembra veramente spaventato.
"No, spaventato no: piuttosto sono impressionato, come non lo ero mai stato. Va bene, mi dicevo, succede anche questo: uno dei tanti bischeri che vengono a galla, poi andrà a fondo. Ma adesso sono davvero impressionato, anche se la mia preoccupazione è molto mitigata dalla mia anagrafe. Che vuole, alla mia età preoccuparsi per i rischi del futuro fa quasi ridere".

Ma lei è sicuro che la partita elettorale sia già giocata? Il centrosinistra non ha nessuna possibilità di battere Berlusconi?
"Guardi: io voglio che vinca, faccio voti e faccio fioretti alla Madonna perché lui vinca, in modo che gli italiani vedano chi è questo signore. Berlusconi è una malattia che si cura soltanto con il vaccino, con una bella iniezione di Berlusconi a Palazzo Chigi, Berlusconi anche al Quirinale, Berlusconi dove vuole, Berlusconi al Vaticano. Soltanto dopo saremo immuni. L'immunità che si ottiene col vaccino".

Lei, Montanelli, oggi è diventato il problema politico principale del centrodestra. Da qualche giorno il suo nome è al centro delle dichiarazioni degli uomini del Polo.
"E' strano: io non avevo mai preso parte alla campagna di demonizzazione: tutt'al più lo avevo definito un pagliaccio, un burattino. Però tutte queste storie su Berlusconi uomo della mafia mi lasciavano molto incerto. Adesso invece qualsiasi cosa è possibile: non per quello che succede a me, a me non succede nulla, non è che io rischi qualcosa, è chiaro. Quello che fa male è vedere questo berlusconismo in cui purtroppo è coinvolta l'Italia e anche tante persone perbene.".

Tutta questa polemica è nata dal programma di Luttazzi. Lei vede programmi di satira politica in televisione? Come li giudica?
"Ne vedo, come no. Beh: l'unico modo per combattere questa cosa è la satira. Che sia sempre fatta bene però non direi, molto spesso è volgare anche quella. Ma forse è peggiore la facilità, la spontaneità con cui Berlusconi mente, e con cui le sue menzogne, a furia di ripeterle, evidentemente vengono bevute dagli altri. Lui racconta a modo suo la fine della mia direzione al Giornale, il giorno dopo la mia uscita, quando non ho potuto certamente influire più sulla stesura della cronaca. Paolo Granzotto scrisse un resoconto di come erano andate le cose. Ecco: andatevi a rileggere quella cronaca, coincide esattamente con le cose come le ho raccontate io. Berlusconi sostiene che io ero al Giornale sognando di farne un altro: non sta né in cielo né in terra. Questa menzogna è semplicemente una scemenza: quanta volgarità, quanta bassezza".

(26 marzo 2001)

www.repubblica.it

alcuni giudizi internazionali sulla devastazione Berlusconiana

"Negli ultimi cinque anni l'Italia ha perso in competitività nei confronti della Germania circa 15 punti in percentuale, mentre gli aumenti degli stipendi non sono stati bilanciati da aumenti della produttività. Il fallimento dell'Italia nel modernizzare le proprie industrie, e nell'affinare le tecnologie, ha lasciato il paese completamente esposto ai venti forti della concorrenza cinese, nel quadro di un'economia sempre più globalizzata... Come nel caso dell'Argentina, l'unica via di scampo per l'Italia consiste nel varare riforme strutturali a lungo termine per riprendere competitività" (Desmond Lachman, resident fellow dell'American Enterprise Institute - il think tank dal quale George W. Bush ha preso una dozzina di collaboratori, da Dick Cheney a John Bolton a Richard Perle-, Financial Times, 17 marzo 2006).

"I paralleli con l'Argentina prima della bancarotta non sono assolutamente da sottovalutare: la debolezza della crescita minaccia di aumentare, il debito pubblico crescerà ancora. Così, potrebbe instaurarsi una spirale d'indebitamento che, alla fine, costringerà l'Italia a lasciare l'Unione monetaria per ristrutturare il suo debito pubblico. Senza delle vere riforme, la probabilità che ciò si verifichi è assai grande, forse già in cinque anni... Se l'Italia vivesse un lungo periodo di grave recessione la gente considererebbe l'euro responsabile dei problemi economici. Alcuni politici, compreso il premier Berlusconi, già ora lo fanno. Tuttavia la colpa non è dell'Unione Europea, ma della mancanza di riforme... Il governo Berlusconi aveva un'occasione veramente favorevole: i tassi d'interesse erano bassi, Berlusconi gode di una comoda maggioranza in Parlamento, ma si è giocato alla leggera questa chance. La sua retorica è quella del liberalismo economico, ma in realtà si è trattato solo dei suoi interessi. Si è comportato come un monopolista che massimizza i propri utili" (Nouriel Roubini, consigliere del Fondo Monetario Internazionale, professore di Economia alla Stern School of Business, New York University, intervistato da "WirtschaftsWoche",17 marzo 2006).