Monday, June 05, 2006

Afghanistan, la gallina dalle uova d'oro

Afghanistan, la gallina dalle uova d'oro Afghanistan - 24.5.2006

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Ricostruzione postbellica: una truffa da 15 miliardi di $ che rischia di ritorcersi contro Bush





Si potrebbe chiamarla ‘Afghanopoli’: una delle più colossali truffe della storia, tanto più grave perché spacciata per opera di bene e compiuta sulla pelle di un popolo che è stato prima bombardato e invaso, e ora viene imbrogliato. Parliamo della ricostruzione post-bellica dell’Afghanistan, un business da 15 miliardi di dollari in piena fase di espansione. Soldi nostri, soldi dei contribuenti occidentali, soldi che escono dalle casse degli Stati ‘donatori’ (Usa in testa) per finire in appalti a multinazionali occidentali (soprattutto statunitensi) ‘ammanicate’ con il potere politico, le quali, invece di spenderli per ricostruire e aiutare l’Afghanistan, se li intascano come profitti o li sprecano in fasulli progetti ‘di facciata’ ad uso propagandistico e in ‘spese di gestione’, vale a dire stipendi stratosferici, alloggi e macchine di lusso.

Una frode ad alta rendita economica e politica. “Qui in Afghanistan sono in corso sprechi e frodi di dimensioni enormi, un vero saccheggio condotto soprattutto da imprese private”, dice Jean Mazurelle, direttrice della Banca Mondiale a Kabul. “E uno scandalo: mai visto nulla del genere in trent’anni di carriera”.
Non è un caso che gli Stati Uniti, tramite USAID, siano il più grande donatore, con 3,5 miliardi di dollari. Non è altruismo, ma solo consapevolezza della convenienza a investire il più possibile in un business che rende molto sia in termini politici che economici. “La priorità non è il progresso dell’Afghanistan, ma l’apparenza di questo progresso”, ammette Peggy O’Ban, portavoce di USAID. “Non importano i risultati, importa ad esempio dimostrare che il governo Karzai è un buon governo”.

Il Louis Berger Group: propaganda per Karzai. Il più chiaro esempio di ciò è il fallimento del fondamentale programma di ricostruzione di scuole, cliniche e strade, affidato (per 665 milioni di dollari) al Louis Berger Group, azienda del New Jersey vicina all’amministrazione Bush, che per questo è diventata il primo ‘contractor’ di USAID. Termine di consegna: fine 2004, data delle elezioni presidenziali afgane che Washington voleva far vincere ad Hamid Karzai con la carta dei risultati della ricostruzione. “Era una scadenza politica”, ha dichiarato Marshall F. Perry, ex direttore del progetto. “Noi eravamo sotto pressione da parte di USAID, e loro lo erano da parte della Casa Bianca. Il risultato è stato che il progetto è finito nel caos”. Conclusioni confermate da Philip J. Bell, direttore della commissione per la ricostruzione afgana del Dipartimento di Stato Usa: “Gli esiti dei progetti più importanti, cliniche, scuole e strade, si stanno rivelando disastrosi”.

Scuole: poche, carissime e tutte da rifare. L’appalto era per 533 scuole e cliniche. Ne sono state consegnate solo 138, perché molte erano progettate sulla carta in zone impossibili: cimiteri, acquitrini, dirupi e zone sotto controllo talebano. In media queste strutture sono costate l’esorbitante cifra media di 250 mila dollari l’una, con punte di 600 mila dollari, come nel caso della scuola ‘modello’ con 20 classi di Kabul. Ma lo scandalo è che, nonostante questi costi esorbitanti, le strutture cadono a pezzi perché costruite con materiali scadenti, su terreni instabili, senza fondamenta. Tutto in barba alle regole, aggirate con il pagamento di mazzette alle società (sempre straniere) incaricate di certificare che i progetti siano a norma (realtà testimoniata in un video in cui viene pagata una tangente di 50 mila dollari ai controllori della CHF Inetrnational). Ecco alcuni esempi raccolti da inchieste giornalistiche e rapporti di agenzie indipendenti, riferiti in maggior parte al Louis Berger Group.

Cliniche che crollano, strade già distrutte. La scuola di Moqor, tra le montagne della provincia di Ganzi, è chiusa per il crollo del tetto che ha ceduto sotto il peso della neve: era un modello di tetto utilizzato solitamente per le costruzioni in California, dove nevica un po’ meno che sulle cime dell’Hundu Kush. Altre 22 scuole e 67 cliniche hanno avuto lo stesso problema. La clinica ‘modello’ di Qala-i-Qazi, vicino a Kabul, ha solo quindici mesi di vita ma è già in rovina: soffitti sfondati dall’umidità e impianto idraulico completamente fuori uso.
La clinica di Larkhabi, nella provincia settentrionale del Badakshan, è finita ma è chiusa perché verrà abbattuta per pericolo di crollo, essendo stata costruita su una frana in una regione altamente sismica.
Stessa sorte toccherà alla clinica ‘modello’ di Kabul, costata 324 mila dollari, ma costruita in barba alle norme antisismiche.
La strada Sar-e-Pol– Shebergan, costata 15 milioni di dollari, era stata promessa in campagna elettorale da Karzai. Le centinaia di operai afgani prendevano 90 dollari al mese per lavorare 10 ore al giorno 7 giorni su 7. Alcuni sono morti sul lavoro. Chi protestava veniva cacciato. Gli ingegneri della Berger prendevano invece 5 mila dollari al mese. Oggi il manto asfaltato è completamente distrutto e nessuno provvede alla manutenzione, tanto le elezioni sono passate. Ma quel che è peggio è che la strada ha interrotto i canali di scolo e di irrigazione in questa zona piovosa, provocando allagamenti e crolli delle abitazioni di argilla costruite nelle vicinanze e distruggendo l’agricoltura locale.

DynCorp: la tragica farsa della lotta alla droga. Ma non è solo il Louis Berger Group a combinar guai.
Il programma di sradicamento delle piantagioni di papaveri da oppio era stato appaltato per 290 milioni di dollari alla compagnia, pure questa texana, DynCorp. L’obiettivo era distruggere 15 mila ettari di coltivazioni, ma l’impopolarità dell’operazione ha portato al suo sostanziale blocco per evitare che lo scontento popolare si ritorcesse contro il governo Karzai e la presenza straniera. Così, dopo aver distrutto solo 220 ettari in totale (al prezzo di decine di contadini uccisi dalla polizia impiegata nelle operazioni di sradicamento), alla fine del 2004 la DynCorp ha provato la strada delle fumigazioni aeree clandestine, abbandonate dopo aver prodotto malattie tra i contadini e il bestiame, distruggendo anche orti e piantagioni legali. In compenso, i 290 milioni di dollari sono finiti negli stipendi ai dipendenti stranieri della DynCorp (compresi tra gli 8 e 30 mila dollari al mese), nei loro lussuosi fuoristrada (da 120 mila dollari l’uno) e nei loro principeschi alloggi a Kabul, con tanto di catering diretto dagli Stati Uniti.

Chemonics: un’assurda ricostruzione agricola. La ricostruzione del settore agricolo è invece stato affidato alla Chemonics International Inc. al costo di 273 milioni di dollari. I risultati sono questi: grandi serre all’americana crollate sotto il peso della neve, silos vuoti perché i contadini non si fidano a metterci dentro i loro prodotti per paura dei ladri, mercati agricoli deserti perché i contadini che dovevano usarli sono andati in rovina per colpa della stessa Chemonics, che aveva consigliato loro di produrre tutti verdure, con l’effetto di abbattere i prezzi nella regione e far fallire i coltivatori. Ma la chicca sono i canali d’irrigazione costruiti nella provincia di Helmand, dove il 90 per cento dei campi sono coltivati a papavero da oppio: dopo l’intervento della Chemonics, la produzione d’oppio in Helmand è sensibilmente migliorata.

Stampa addomesticata e mp3 per promuovere la democrazia. Dulcis in fundo, i 56 milioni di dollari di ‘aiuti’ americani all’Afghanistan andati al Rendon Gruop, azienda di Washington strettamente legata a Bush, incaricata di “promuovere l’immagine del governo Karzai e degli Stati Uniti sulla stampa afgana”, attraverso bustarelle pagate ai giornalisti locali perché pubblichino notizie positive e tralascino quelle negative e critiche.
Ma i soldi spesi meglio rimangono senza dubbio gli 8,3 milioni di dollari che USAID ha dato a Voice for Humanity, piccola azienda del Kentucky legata al presidente della commissione parlamentare che approva i bilanci di USAID, senatore Mitch McConnel, per finanziare la distribuzione nei villaggi afgani di 65.800 lettori mp3 da 50 dollari l’uno, contenenti messaggi volti a “promuovere la democrazia” e il sostegno al governo Karzai.

Gli afgani hanno capito e stanno perdendo la pazienza. Come non dare ragione al dottore afgano Azizullah Safar: “E’ giusto che sappiate che i soldi che i vostri governi potrebbero spendere per i vostri bambini, per le vostre scuole e per i vostri ospedali sono stati semplicemente tutti buttati via”.
Per la comunità internazionale, Stati Uniti in testa, l’Afghanistan è una grande gallina dalle uova d’oro, un posto dove venire, dare una mano di vernice su un muro marcio, presentare un conto gonfiato che nessuno controllerà mai e incassare.
Ma gli afgani, che all’inizio si sono mostrati pazienti e fiduciosi, oramai hanno capito che degli stranieri non c’è da fidarsi perché dicono bugie, perché pensano solo al proprio tornaconto. E hanno cominciato quindi a guardare con occhi diversi chi, da tempo, diceva queste cose: la resistenza armata talebana, che non a caso si dimostra di giorno in giorno più forte.

Enrico Piovesana