Sunday, May 28, 2006

"Il burattinaio" (alias Luciano Moggi) da Piedi puliti di Leonardo Coen, Peter Gomez (copyright Garzanti Libri, 1998, 2006).

ecco il capitolo "Il burattinaio" (alias Luciano Moggi) da Piedi puliti di Leonardo Coen, Peter Gomez (copyright Garzanti Libri, 1998, 2006).


Il Burattinaio


Anche per lui la vera rivoluzione era stata l’Olanda di Cruijff. Veder finalmente giocare una squadra a tutto campo, con attaccanti e difensori che si scambiavano di ruolo, pronti a lasciare l’uomo per andare a coprire la zona, gli aveva suscitato una profonda emozione. E ancora di più lo aveva colpito scoprire che i calciatori, quegli atleti immensi, anche fisicamente molto più alti e veloci dei campioni nostrani della pelota, la sera in ritiro non ci andavano da soli. Con loro c’erano mogli, fidanzate, amanti. Donne bellissime, dalle caviglie sottili e dallo sguardo azzurro e impenetrabile. Donne che facevano sognare. Ma che a lui mettevano quasi la tremarella addosso.
Quante volte aveva discusso dell’Olanda. E quante volte, davanti a un bicchiere di buon rosso, la conversazione era man mano scivolata verso il basso. Verso le virili prodezze degli olandesi che forse avrebbero potuto trasformare anche un uomo come lui, bonariamente definito dagli amici un «mediano d’ingombro», in un campione.
Correvano i primi anni Settanta. E Luciano Moggi da Monticiano (Siena) aveva ormai capito che, superata abbondantemente la boa dei trent’anni, il calcio, quello giocato, gli era definitivamente precluso. Anche una cura olandese a base di bionde e allenamenti non avrebbe mai potuto portarlo in campo.
Contro l’anagrafe non c’era nulla da fare.
La sua vita, guardata dalla stazione di Civitavecchia, dove era ormai arrivato a ricoprire il grado di capo gestione, sembrava dovergli riservare solo treni, binari e tanta noia.
Del football però sapeva tutto. Ogni mattina divorava i quotidiani sportivi, e poi le pagine sportive di quelli nazionali. Così mentre in stazione smistava pacchi (pare che quella fosse la sua specialità), ripensava alle formazioni, agli arbitri, agli allenatori e soprattutto ai presidenti.
Il suo più caro amico Graziano Galletti, un panettiere di Grosseto, commentava con lui le loro imprese. Insieme andavano indietro nel tempo ricordando la mitica Inter di Angelo Moratti e del suo Richelieu, quell’Italo Allodi che per Luciano, futuro direttore generale della Juventus di fine millennio, sarebbe diventato una specie di modello.
Nei Bar Sport della penisola, è vero, i tifosi non ricordavano solo le gesta di Mariolino Corso, «il piede sinistro di Dio», che ancora caracollava qua e là per i campi schiacciato dal peso inesorabile del tempo. Tra loro c’era anche chi continuava a parlare di regali degli arbitri. I più cattivi, in genere i milanisti, sostenevano addirittura che a far da contraltare ai favori dei fischietti ve ne fossero stati altri, inconfessabili, resi dal vecchio Moratti ai direttori di gara. I tifosi favoleggiavano di terne arbitrali che prima delle partite di coppa dell’Inter si erano ritrovati al polso pesanti orologi d’oro. Oro massiccio, come massiccio era stato il catenaccio di quella squadra da favola, pronta a uccidere in contropiede velleità e speranze di qualsiasi formazione, vincendo campionati e Coppe dei Campioni.
Ma dalla curva nerazzurra si era sempre sollevata pronta una risposta. Quasi con un ruggito il popolo interista non smentiva, ma urlava al mondo la sua rabbia e parlava di altri arbitri e di altre squadre: prima tra tutte quella di Torino, l’odiata Juventus, dove, stando alla leggenda, le giacchette nere arrivavano allo Stadio Filadelfia a piedi e ne uscivano su fiammanti Millecento. Insomma, per gli interisti pensare che il presidente, pur di portare in alto gli undici eroi di San Siro, fosse disposto a combattere ad armi pari con gli altri padroni del pallone era solo un motivo in più d’orgoglio. Non un disonore.
Che tempi. E che calcio. Un calcio immaginato, più che vissuto. Un calcio idealizzato ascoltando per radio la voce di Nicolò Carosio e Nando Martellini. Un calcio sognato leggendo sui giornali i resoconti di Gianni Brera e di Gino Palumbo. Allora non c’era la diretta tv. Tutto era rimesso ad altri, a pochi privilegiati mediatori di una magia che era possibile provare solo di tanto in tanto andando allo stadio.
Luciano quella magia sentiva di averla nel sangue e nelle ossa. Era come una perniciosa febbre malarica che lo colpiva puntualmente ogni domenica.
Fu così che per sconfiggerla Moggi provò a vivere di football. Prima proponendosi come osservatore proprio per la Juve dove era approdato, tramontata l’era Moratti, il Richelieu Allodi, sicura garanzia di vittorie a ripetizione. Poi trasferendosi nella capitale, dove di squadre ce n’erano addirittura due: la Roma e la Lazio. Lì Luciano non ci mise molto a capire che nel mondo del pallone c’era posto per tutti: anche per uno come lui.
Ad assumerlo fu la Roma, ma ben presto cominciò a occuparsi anche della Lazio. Per Moggi, che amava il calcio prima di ogni cosa, dedicarsi a una sola squadra era infatti troppo poco. Anche perché il vecchio presidente di Lupi giallorossi, Dino Viola, abituato com’era a trattare da pari a pari con «gentiluomini» dal calibro di Giulio Andreotti o del suo braccio destro Franco Evangelisti, lo guardava sempre dall’alto in basso. E non per una questione fisica.
A Luciano infatti restava ancora appiccicata addosso un’etichetta da parvenu della pelota. E anche se Viola non disdegnava la compagnia di altri parvenu come i palazzinari fratelli Caltagirone, con Moggi, ricco di spirito e di talento ma povero di contanti, il presidente dimostrava sempre una certa ritrosia. Tanto che, raccontano, quando lo incontrava gli dava il gomito al posto della mano.
Luciano Moggi però non se la prendeva.
I suoi amici era destinato a trovarli altrove: a bordo campo, in campo e soprattutto nei ristoranti. I collaboratori migliori grazie ai quali, di lì a qualche anno, concluderà affari miliardari, li ha pescati qui. È il caso per esempio di Pino Pagliara, un pizzaiolo emigrato in Inghilterra, prima a Londra e poi a Manchester, ora grande stratega delle operazioni di Luciano in Gran Bretagna. O di Vincenzo Morabito, ex gestore di una trattoria di Göteborg, che un giornale tradizionalmente poco tenero con i colori bianconeri come «Il Messaggero» ha incluso nell’elenco degli «agenti FIFA e procuratori» fidati di Moggi.
Ciro a Mergellina, Ilio e Urbani a Torino, La Cantinetta e l’Hotel Royal a Napoli: sono le salette riservate di locali come questi i veri uffici di Moggi. Uffici impenetrabili ai più, veri sancta sanctorum del calcio italiano, che contribuiscono a creare intorno a ogni trattativa un’atmosfera da leggenda. Il contratto di Del Piero è stato discusso nel tempio culinario della «Venerabile confraternita del baccalà alla vicentina», antica e poco segreta società veneta solita riunirsi al Due Spade, vicino a Vicenza.


SEXY-CALCIO

Juventus, Roma, Lazio, Torino, Napoli e poi ancora Torino. Di squadra in squadra la carriera di Moggi è in continua ascesa. Luciano cresce. Impara. E quando, dopo aver vinto scudetto e coppe varie sul ponte di comando della squadra di Maradona torna all’ombra della Mole Antonelliana, Moggi capisce anche che in epoca di Prima Repubblica il peso della politica può diventare decisivo. Ancor più decisivo di un buon giocatore o di un fischietto considerato di fiducia.
Il suo nuovo presidente Gian Mauro Borsano è amico di Bettino Craxi, grande tifoso del Toro. Moggi lo sa e, pur di emergere, decide di strafare. Inizia la Coppa UEFA. A Torino gli arbitri internazionali calano a frotte. I granata decidono così di ospitarli al meglio: grandi alberghi (l’Hotel Turin), grandi mangiate e soprattutto splendidi dopo cena.
In un clima da Folies Bergères, la squadra accumula vittorie su vittorie. Il Torino diverte il suo pubblico. Anche i fischietti si divertono. La sera al loro fianco hanno avvenenti interpreti. Donne da favola che, a seconda delle epoche, si sarebbero chiamate massaggiatrici, astrocartomanti, cocottes...
Finché, nel 1993, le notti brave garantite alle giacchette nere non fanno finire Moggi davanti ai magistrati. Il reato contestato a Luciano e al segretario generale della squadra Gigi Pavarese è addirittura di sfruttamento della prostituzione. Un’accusa che poi finirà in archivio per ragioni in buona parte tecniche.
La sexy-inchiesta nasce quando la Guardia di Finanza scopre in casa di Giovanni Matta, un anziano contabile del club, un’agenda sulla quale il puntiglioso ragioniere era solito annotare tutte le uscite in nero della società sportiva. I militari si insospettiscono leggendo una annotazione in cui Matta elenca i milioni spesi per «pubbliche relazioni-accompagnatrici arbitri». Poi capiscono tutto non appena si imbattono in un appunto molto più esplicito: «Una certa Adriana R. chiede 6,3 milioni, è una puttana, mi dicono di pagarla». Matta, convocato in Procura, non ci mette molto a confessare: «Ogni terna arbitrale tra un omaggio e l’altro ci veniva a costare una decina di milioni».
Borsano conferma, ma scarica tutto su Moggi. E Luciano? È in difficoltà. Per difendersi ricorre al mestiere e cerca di spedire la palla in corner. «Io credevo che fossero delle semplici interpreti», balbetta. «E poi quando capii che facevano, ordinai di non pagarle più».
Moggi ammette però altri regali ai fischietti, precisando che «non superavano il milione di lire a testa. È una prassi normale, non l’ho inventata io».
Comunque stiano le cose, un fatto è certo. Gli arbitri, deliziati dalla compagnia femminile, fanno come i giocatori di quell’Olanda di quel calcio totale che tanto aveva impressionato Moggi quasi vent’anni prima: arbitrano meglio.
In quella stagione i risultati per il Toro sono eccellenti. Nel 1991- 92 la squadra di Borsano, confortata in attacco dalle prestazioni di Gianluigi Lentini, arriva in finale di Coppa UEFA e perde per un soffio contro l’Ajax.
Anche le prestazioni degli arbitri sono di un certo rilievo. Una delle lucciole ingaggiate dal Toro, la Adriana R. dell’appunto di Matta, ricorda di aver ricevuto una telefonata da Gigi Pavarese, segretario generale dei granata e attuale dirigente del Napoli, il «quale si presentò come segretario di Moggi che avevo conosciuto al ristorante». E aggiunge : «Pavarese mi chiese la disponibilità per il dopo-cena. Sono una donna di mondo, sono abbastanza adulta per capire che era richiesta una prestazione amorosa...».
Finiscono così nel mirino della magistratura tre partite in cui Adriana e due amiche si sono date da fare per rendere più piacevole il soggiorno torinese delle terne arbitrali di Coppa. Tre incontri tutti regolarmente vinti dal Toro: Torino-Reykjavik (arbitro il croato Colic), Torino-Boavista (arbitro l’inglese Hackett) e Torino-AEK di Atene (arbitro il belga Goethals).
Nel primo caso le «interpreti» si sono limitate a essere tali. Il croato Colic, dopo una cena al ristorante, al momento della buona notte ha regalato ad Adriana e alle sue amiche un mazzo di rose. Negli altri due l’allenamento prepartita è proseguito in notturna e le sparring partner dei fischietti hanno preteso dalla società granata due milioni a testa più le spese.
Le carte processuali raccontano che il loro intervento sugli arbitri era, per così dire, «a sorpresa». Le ragazze infatti si presentavano all’Hotel Turin dove venivano loro consegnate le chiavi delle stanze dei direttori di gara e si facevano trovare in camera pronte all’uno contro uno.
Il 18 marzo del ’94 Adriana racconta ai magistrati: «Quando arrivammo in camera c’erano già i bagagli degli ospiti che ci raggiunsero dopo un quarto d’ora, venti minuti. Non so dire se si aspettavano di trovarci lì. Ma secondo me no».
Anche gli arbitri sono uomini. E così la bella Adriana può assicurare: «No, vedendomi in camera, non fui presa per una ladra. Non fui cacciata. Il signore che avevo davanti però non mi chiese chi ero. Mi ricordo solo che parlava francese, ma io e lui non conversammo molto. Bevemmo un drink e poi facemmo quello che avevo pensato...».
Interrogato, Pavarese sostiene che Adriana ha «equivocato l’incarico assegnatole». Moggi continua a insistere dicendo di aver saputo tutto a cose fatte.
I magistrati a questa versione credono poco.
Nel decreto di archiviazione della sexy-inchiesta, definita senza mezzi termini una «poco edificante vicenda», il giudice ricorda come «la necessità di interpreti o di altre figure delegate alle pubbliche relazioni non fu sicuramente una necessità, potendo contare il Torino Calcio su una struttura organizzativa di sicura efficienza che già annoverava validi collaboratori con funzioni d’interprete». Ma anche se «due episodi di congiunzione carnale» vengono provati, le accuse di favoreggiamento della prostituzione contro Luciano e il fido Pavarese finiscono in archivio. Due sole prestazioni, spiegano i magistrati, «sono un numero troppo modesto per poter sostenere un discorso di continuità, presupposto oggettivo indispensabile per poter parlare di favoreggiamento della prostituzione». Inoltre ai due indagati va concesso il beneficio del dubbio: non c’è la prova che nei discorsi tra Pavarese e Adriana «sia intervenuto l’esplicito invito ad assecondare gli arbitri nei loro desideri».
Sul piano sportivo invece sembra tutta un’altra musica. Per il giudice, «l’iniziativa di rendere più ameno il soggiorno degli arbitri a Torino, in occasione delle partite di Coppa UEFA, qualunque siano state le reali finalità dell’ingaggio di avvenenti signore addette al dopo cena, rivela una chiara volontà di addolcire la severità degli arbitri, rendendoli obbligati verso la città che li ospitava con tanto riguardo e sicuramente meno liberi nell’esercizio del loro incarico». Forse la «sudditanza psicologica» di cui si parla così spesso nel mondo del calcio nasce anche così.
Le squalifiche sembrano scontate. Ma non sarà così. Anche se nel decreto di archiviazione dell’inchiesta penale il giudice definisce sin troppo «evidente» la «lesione degli interessi sportivi, nonché la frustrazione delle regole che animano il gioco del calcio», l’UEFA, dopo aver garantito un severo ripulisti, non interviene. «Il severo giudizio morale» espresso dalla magistratura ordinaria non sarà sufficiente a smuovere i padroni del pallone.
Ma tanto basta. Si apre l’inchiesta sul Torino e sulla gestione Borsano (che nel frattempo è diventato protagonista di fallimenti a go-go). Il buon Luciano cambia aria. Ricordandosi che in fondo era stato un capo gestione (qualifica equivalente a quella di capo stazione) e che quindi non poteva permettersi di sbagliare treno, Moggi abbandona i granata mentre viaggiano sicuri verso la rovina. L’aveva già fatto negli anni Ottanta quando aveva lasciato un altro Torino, quello del presidente Sergio Rossi, per il Napoli di Maradona, a sua volta salutato, come vedremo più avanti, ai primi accenni di tempesta.
Moggi ritorna così a Roma, alla corte del neopresidente Franco Sensi portando (apparentemente) in dote due giocatori di peso: Paulo Sousa e il difensore del Napoli dello scudetto Ciro Ferrara. I giallorossi esultano. Ma per poco.
Nel frattempo è diventato amministratore delegato della Juve un manager abituato a fare i conti più con i bilanci che con le ragioni del cuore: Giovanni Giraudo, braccio destro di Umberto Agnelli, tifoso torinista. Giraudo decide di affidarsi a Moggi e al suo staff. Luciano, nei campi di calcio lo sanno anche i pali delle porte, è un mago, anzi qualcosa di più. E così Giraudo lo sceglie come direttore generale, anzi come direttore ombra. Prima di potergli affidare ufficialmente l’incarico, è infatti necessario attendere la chiusura della sexy-inchiesta. Moggi fa buon viso a cattivo gioco: si sistema in un ufficetto e attende paziente il decreto di archiviazione.
Sensi grida al tradimento. E grida al tradimento anche il popolo della Juve. La curva, infatti, Giraudo se lo ricorda bene. Nella mente dei tifosi c’è ancora l’immagine arcigna di quell’uomo dagli occhi di rana che per quarant’anni allo stadio ci era andato sì tutte le domeniche, ma sempre con al collo una sciarpa granata. Certo, del Toro Giraudo non era mai stato un dirigente, ma ne è sempre stato un supporter doc. E che dire poi di Moggi, che quando lavorava per Borsano aveva quasi fatto vincere agli odiati cugini la Coppa UEFA?


SILENZIO STAMPA (1)

Già, che dire? Niente. Perché dopo le contestazioni arrivano anche Ferrara e Sousa. E poi le vittorie a ripetizione della squadra diretta con maestria da Marcello Lippi.
La piazza si placa. La Juve vince e gioca in modo straordinario. Solo Sensi tenta di protestare ancora. Ma non serve. Anzi, forse è controproducente. In casa c’è chi lo osteggia: Fabrizio Carroccia, alias «Mortadella», simpatico capetto degli ultras giallorossi, nemico suo e amico di Lucianone Moggi.
Qualche domanda se la pongono invece i giornalisti. Marco Travaglio, nel 1994 cronista della «Voce» di Indro Montanelli, scrive che la campagna acquisti della Juve è stata diretta da Moggi, il quale a causa delle imbarazzanti indagini giudiziarie non può comparire in prima persona. Giraudo invita Travaglio a colazione. Gli dice che non è vero, ma quando il cronista domanda un comunicato ufficiale di smentita da parte della società, il dirigente juventino nicchia. Prende tempo.
Quell’incontro segna, forse, l’inizio di un periodo di rapporti tesissimi tra la stampa sportiva e i vertici dirigenziali della Vecchia Signora. Gli attacchi si fanno ripetuti. Tanto che il 12 settembre del 1996 Giraudo e Moggi pensano bene di organizzare una cena riparatrice. Sono presenti una dozzina di giornalisti. I manager juventini sembrano tranquilli. Di fatto giocano in casa. Come terreno dell’incontro è stato scelto il ristorante Da Ilio Due Mondi, dove Moggi sfida spesso a carte un altro Luciano: Nizzola, il presidente della Federcalcio, conosciuto nei primi anni Ottanta, quando entrambi erano dirigenti del Toro. Dopo qualche bicchiere volano parole grosse. La cena riparatrice si trasforma in una rissa verbale. Giraudo, raccontano i presenti, se la prende con un cronista di «Tuttosport» che gli risponde per le rime. E poi attacca Travaglio, che non c’è: «Fa del giornalismo schifoso, vergognoso, inaccettabile. Ho fatto in modo che non scrivesse più. Il suo è un giornalismo alla Pecorelli...». Comunque siano andate le cose, l’autogol è clamoroso. Travaglio infatti, informato dai colleghi, presenta un esposto in Pretura.
Vale la pena di raccontare la vicenda nei dettagli, basandosi sulle carte processuali, visto che la geniale iniziativa distensiva della Juve è diventata oggetto di un’inchiesta penale. I cronisti sfilano come testimoni davanti ai magistrati. Giraudo nega di aver paragonato Travaglio a Mino Pecorelli, il giornalista iscritto alla P2, da molti considerato un «ricattatore» e ucciso, secondo la Procura di Perugia, per ordine di Giulio Andreotti. Moggi nella sua deposizione assicura: «Non ho sentito assolutamente Giraudo fare cenno a un giornalismo alla Pecorelli. La discussione era sì accesa, ma l’importanza del contendere non era tale da far trascendere in accuse o minacce».
Malgrado questa autodifesa, si giunge al rinvio a giudizio per due. Il sostituto procuratore presso la Pretura, Patrizia Gambardella, manda alla sbarra Giraudo per diffamazione e Moggi per favoreggiamento. A suo avviso il direttore generale della Juve ha tentato di salvare il suo amministratore delegato «rendendo false dichiarazioni» agli investigatori. Il processo sarà celebrato nel 1999.
La débacle della cena riparatrice sortisce però effetti ancor più perniciosi. I giornalisti, i maledetti giornalisti che comunicano al mondo dei tifosi ogni palpito, emozione, gesto, frase dei campioni bianconeri, incominciano a non starci più. Gli articoli si fanno più «cattivi» o, a seconda dei punti di vista, più veritieri.
Dopo averci provato con le buone, la Vecchia Signora cambia registro. Scattano le «sospensioni». Ad alcuni cronisti viene impedito l’accesso agli spogliatoi, quello agli allenamenti e il contatto con i giocatori. È ovvio: i calciatori bianconeri, come qualsiasi altro cittadino, sono liberi di parlare con chi vogliono. Ma dal punto di vista dei rapporti con l’opinione pubblica sventolare cartellini gialli e rossi davanti a chi usa penna e taccuino non è un gran bella trovata.
Alla fine anche i manager juventini se ne rendono conto. Quando, nel campionato del ’97-98, errore arbitrale dopo errore arbitrale, quasi tutti i media danno addosso alla squadra, i dirigenti decidono il black out assoluto. È il silenzio stampa, un po’ per dare tranquillità ai campioni, un po’ per evitare gaffes e polemiche.
Ma ormai è tardi. Il caso Juventus è ormai un caso. E, come tutti i casi di italica memoria, finisce in tribunale. Non però davanti ai giudici penali, dove c’è il rischio d’incontrare un pubblico ministero che, magari partendo dagli articoli di giornale, decide di aprire un’inchiesta, con tanto di pedinamenti, intercettazioni telefoniche e analisi di bilancio. Il giudice che si dovrà occupare della questione Juve-arbitri sarà quello civile.
L’avvocato Vittorio Chiusano, presidente della squadra bianconera e noto al mondo come «l’avvocato dell’Avvocato» (Gianni Agnelli), il 6 marzo cita per danni «Il Messaggero» e un suo corsivista, Roberto Renga. Chiusano pretende un risarcimento di 10 miliardi per una serie di articoli comparsi nel mese di febbraio sul quotidiano romano: 10 miliardi, appena 2 meno del premio che la Lega Calcio riserva ai club vincitori del campionato.
Viste con il senno di poi, le «colpe» del «Messaggero» sono chiare. In febbraio, quando a lamentarsi degli arbitraggi erano soprattutto le squadre romane, Renga aveva analizzato il comportamento di alcuni fischietti non solo durante le partite in cui giocavano i bianconeri, ma anche durante i match che vedevano impegnate le dirette concorrenti della Juve allo scudetto. Ed era giunto alle conclusioni cui sarebbero arrivati con durezza molti altri osservatori dopo la partita scandalo Juve-Inter.
Il 13 febbraio per esempio aveva scritto: «Tra la notte di mercoledì e il pomeriggio di ieri si è calcisticamente consumato il delitto perfetto. Mercoledì: rigore tolto al Brescia, rigore e espulsione scippati all’Inter, rigore regalato alla Roma, cartellino giallo a Mihajlovic che salterà così la partita di domenica prossima. E contro chi giocherà la Sampdoria? Ma via è facile, la Juventus». Renga proseguiva interrogandosi sulle designazioni arbitrali e concludeva esprimendo molte perplessità sul futuro della gestione Nizzola.
Dopo quel pezzo Renga non aveva riposto la penna nel cassetto. Aveva continuato a scrivere e, nei giorni successivi, se l’era presa anche con Moggi ricordando come suo figlio Alessandro fosse procuratore di «ottanta giocatori, sparsi in vari club, anche in quelli che la domenica vanno ad affrontare la Juventus di Moggi senior». Per lui quello era un lampante, arcitaliano, banalissimo problema di conflitto d’interessi.
Interventi duri, quelli del «Messaggero». Ma sempre nel più puro stile del corsivismo se non sportivo, almeno politico. Uno dopo l’altro, sia pure con la faziosa acrimonia del tifoso, il quotidiano di Roma elenca, nei suoi articoli, gli eventi e solleva degli interrogativi.
La risposta non si fa attendere. Arriva il 6 marzo 1998 dall’avvocato dell’Avvocato. Nel suo atto di citazione a giudizio Chiusano spiega che il club bianconero, «il quale ha in progetto di emettere azioni da quotare in borsa», è rimasto vittima di una campagna stampa «arrecante ingiustamente danni rilevanti, patrimoniali e non».
«È naturale», scrive Chiusano, «che il mercato borsistico londinese (Londra è una delle principali piazze finanziarie del mondo) che potrebbe accogliere la emissione e la quotazione delle azioni Juventus ne penalizzi il valore se si mette in dubbio che i risultati – e quindi gli incassi – dipendano da illeciti più che dai meriti sportivi e che è possibile o probabile un accertamento di tali illeciti, addirittura in sede penale, di questi ultimi con ovvie conseguenze a carico della Juventus. È questo appunto anche il parere di importati banche d’affari esperte nell’assistenza per le quotazioni e i collocamenti in borsa». La reazione è insomma durissima. La Vecchia Signora non tollera neanche l’ombra di un sospetto. Mancano ancora 51 giorni a quel fatidico Juve-Inter.
Il direttore del «Messaggero» Pietro Calabrese non si scompone: «L’avvocato Agnelli avrebbe chiuso e risolto la vicenda con una battuta spiritosa. Con Giraudo e Moggi, invece, si finisce in mano agli avvocati. Non mi pare che sia nello stile Juventus». La «campagna» continua.
Moggi, invece, sembra sempre più compreso nella sua parte di grande vecchio. Prima fa la vittima: «Siamo soli contro tutti, mentre le squadre romane hanno il privilegio di sentirsi protette», tenta di rilanciare. Poi, quando gli viene domandato chi protegga le supertartassate Roma e Lazio, si chiude a riccio. E si rifugia in un linguaggio per iniziati: «I messaggi che ho mandato sono arrivati agli indirizzi giusti». Che cosa vuol dire? Boh. Misteri del calcio italiano.
Il padrone intanto è sempre più lui. Adesso anche chi non si era mai interessato di sport lo chiama «re del calcio mercato». I giornali lo paragonano a Clinton. Non tanto per quella vecchia storia di procaci donnine, ma perché, scrivono i quotidiani, va in giro con due telefonini. Nei periodi caldi, quando bisogna fare le squadre, c’è chi sostiene di averlo visto ricevere in un solo giorno 625 chiamate.
Numeri da capogiro, come da capogiro sono i contratti conclusi dai giocatori della sua scuderia (da non confondere con la sua scuderia di cavalli). Moggi rappresenta infatti, secondo i quotidiani sportivi, una trentina di campioni del calibro di Di Livio, Fonseca, Conte, Tacchinardi, Zidane, Davids, Totti, Petruzzi, Scapolo, Amoroso, Fresi, Galante, Ravanelli, Boksic, Cruz, Crespo, Cannavaro, Thuram e Mihajlovic... Fatti due conti, sono circa settecento miliardi di carne da pallone: una «internazionale» del calcio che costringe tutti i presidenti a trattare con lui. Non a caso Moggi è consulente anche di Moratti e Cragnotti, proprietari di Inter e Lazio, le due squadre dirette concorrenti della Juve. Un bell’intreccio. Anche Michele Santoro, in una puntata di Moby Dick, è sbottato: «Ma questo è un conflitto d’interessi».

(da Leonardo Coen, Peter Gomez, Leo Sisti, Piedi puliti, Garzanti, Milano, 1998)

Thursday, May 25, 2006

INDRO MONTANELLI , IL BERLUSCONISMO E LA CAMPANA A MORTO DELLE ISTITUZIONI

Anni addietro, un noto-per chi perlomento legge i quotidiani- giornalista : Indro Montanelli ,certo non un bolscevico o ex PCPDSDS (come si esprime durante le sue teleprediche il giaculatore peronista di Arcore) , dopo aver avuto modo di conoscere bene i metodi del suo ex editore Berlusconi,intervistato nel 2003 da quell'altro Trotzkista di Enzo Biagi (per il B tutti gli esseri liberi sono comunisti )parlò della "facilità, la spontaneità con cui Berlusconi mente, e con cui le sue menzogne, a furia di ripeterle, evidentemente vengono bevute dagli altri" , disse anche : "la volgarità, la bassezza di questa Italia qui non l'avevo vista né sentita mai. Il berlusconismo è veramente la feccia che risale il pozzo".
Parole di un giornalista Libero (non come il patetico giornaletto del signor Feltri) ,giornalista che non aveva nulla da temere da eventuali estromissioni dal posto di lavoro. Montanelli , uno di destra, liberale verace, si accorse della cancrena che si stava propagando in Italia ,dell'indole di un vero illiberale ,di un dittatoruncolo che ha introdotto in italia un clima di costante lacerazione, di continua tribuna elettorale, grazie alla mostruosa concentrazione televisiva, con cui con fare alla Goebbels , ripete all'infinito- direttamente o per interposta persona- i suoi refrain sconcertanti, devastanti per la convivenza civile e le istituzioni, come la populista ossessione per la riduzione delle tasse costi quel che costi, anche un buco pauroso nei conti pubblici, anche la disgregazione sociale, pur di accattare quel bacino di voto di gente che dovrebbe vivere alle Cayman e non in Italia, insieme ai compagni di merende evasori fiscali.
Certo, in italia ci sono stati eccessi burocratici che hanno asfissiato le imprese, certo, i soldi presi con le imposte(tasse e tributi) andrebbero usati in modo più efficiente,magari con meno esprechi e clietelismi maneggioni di destra come di sinistra , clientelistmi che ci sono nella Sicilia di "VasaVasa" Cuffaro come nella Campania di Bassolino , sarebbe bello vedere la fine degli intrallazzi familisti in stile GEA , la fine del familismo dei figli di , la fine delle dinastie professionali dei Notai o Avvocati etc, questo lo vogliamo tutti, credo. Certo sarebbe bello vedere meno facce di lacchè ,di destra come di sinistra , ma non credo che quest'opera di pulizia possa farla uno che in parlamento si è circondato di avvocati da lui stipendiati che da una parte lo difendevano in processo e dall'altra gli hanno scritto le leggi da applicare ai processi suoi, non senza suo vantaggio e dell'amico neo galeotto Previti,con qualche vantaggio in meno, nonostante tutti i tentativi. L'italia non ha bisogno di millantatori, di pallonari, di arraffoni della credulità popolare, di gente che vinse le elezioni, oltre che vantando i propri scudetti e successi imprenditoriali di origine craxiano piduista in un mercato senza regole e con finanziamenti BNL"oltre ogni merito creditizio" (come da commissione Anselmi sulla P2), prevedendo una assurda crescita del PIL al 3% sulla quale, contro ogni buon principio contabile di prudenza, basarono una politica fiscale già discutibile , ma dinamitarda e scriteriata per il fatto che la crescita prevista era del tutto impossibile dopo l'11 settembre e politiche internazionali conseguenti su cui è meglio stendere un pietosissimo velo, e anche visti gli sviluppi del neocapitalismo della Cina , capitalismo che quando fa comodo si definisce panacea per tutti mali e quando colpisce i propri interessi -petroliferi e commerciali- diventa il mostro schiavista , il nemico, il male, ed il male nero, rosso o giallo che sia, fa sempre comodo, la paura rinsalda il gagliardo spirito nazionale . Quando la paura e la chiacchiera -sempre tendenziosa- lascia il posto alla lucida razionalità che sarebbe necessaria per uscire dal pantano in cui ci troviamo, quando il qualunquismo e le frasi fatte da bar sport, sempre le stesse, si precepiscono costanti e pesanti , sconcertanti come una campana a morto delle istituzioni, come i fischi e gli insulti addosso ai senatori a vita , ora anch'essi definiti comunisti perchè liberi , come i recentissimi insulti ad un ministro- Rosy Bindi che difende la Laicità dello Stato ,e che si è sentita dare perciò della lesbica, da un maleducato tanghero della liberalissima e rispettosa destra italiana ,quella della "vamiggia" e del "bonde" (famiglia e ponte ,per gli altri italiani; a proposito : l'efficientissima Sicilia dei tanti caporali del centrodestra rientra nell'italia "pruduttiva" che vota a destra?)usando come argomento la sua "colpa" di non essere una bella e stupida come altre su cui è meglio tacere per carità umana. Quando si è caduti così in basso, non si può che risalire, speriamo bene, perchè scendendo più in basso l'ossigeno inizia a mancare .
CDEBORD
25/05/2006

Tuesday, May 23, 2006

"L'Italia di Berlusconi è la peggiore mai vista": RICORDANDO INDRO MONTANELLI

Montanelli: "L'Italia di Berlusconi
è la peggiore mai vista"
"Quell'uomo è una malattia: si cura solo con il vaccino
Una bella iniezione di Cavaliere premier per diventare immuni"

di LAURA LAURENZI

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MILANO - Sembra essere diventato il nemico numero uno del Polo. Berlusconi gli dà del bugiardo e dell'ingrato, Fini lo descrive come l'ennesimo giornalista "strumentalizzato" dalla sinistra, i giornali della destra portano il suo nome nei titoli di testa in prima pagina. La sua "colpa" è il tradimento: ha dichiarato di votare per il centrosinistra, ha partecipato alla trasmissione di Santoro, dove - capo d'imputazione gravissimo - ha persino dato ragione alla ricostruzione fatta da Marco Travaglio sulle vicende del Giornale. Indro Montanelli ha risposto con le sue armi: un editoriale al veleno sul Corriere della sera in cui restituisce l'accusa di mendacio al Cavaliere, gli replica punto per punto e chiosa: "Chiagne e fotte, dicono a Napoli dei tipi come lui. E si prepara a farlo per cinque anni di seguito". Dopo l'articolo, da ieri mattina il suo telefono non ha fatto che suonare.

"La cosa più impressionante - racconta Montanelli - sono state le telefonate anonime. Ne sono arrivate cinque una dopo l'altra, tre delle quali di donne. Non so chi avesse dato loro il mio numero, che è assolutamente introvabile. Dicevano tutte la stessa cosa: delle invasate che urlavano: lei che per vent'anni ha mangiato alla mensa di Berlusconi! Io, capirai? Come se io fossi stato mantenuto da Berlusconi".

Insomma, siamo alle minacce.
"Veramente la scoperta che c'è un'Italia berlusconiana mi colpisce molto: è la peggiore delle Italie che io ho mai visto, e dire che di Italie brutte nella mia lunga vita ne ho viste moltissime. L'Italia della marcia su Roma, becera e violenta, animata però forse anche da belle speranze. L'Italia del 25 luglio, l'Italia dell'8 settembre, e anche l'Italia di piazzale Loreto, animata dalla voglia di vendetta. Però la volgarità, la bassezza di questa Italia qui non l'avevo vista né sentita mai. Il berlusconismo è veramente la feccia che risale il pozzo".

Lei sembra veramente spaventato.
"No, spaventato no: piuttosto sono impressionato, come non lo ero mai stato. Va bene, mi dicevo, succede anche questo: uno dei tanti bischeri che vengono a galla, poi andrà a fondo. Ma adesso sono davvero impressionato, anche se la mia preoccupazione è molto mitigata dalla mia anagrafe. Che vuole, alla mia età preoccuparsi per i rischi del futuro fa quasi ridere".

Ma lei è sicuro che la partita elettorale sia già giocata? Il centrosinistra non ha nessuna possibilità di battere Berlusconi?
"Guardi: io voglio che vinca, faccio voti e faccio fioretti alla Madonna perché lui vinca, in modo che gli italiani vedano chi è questo signore. Berlusconi è una malattia che si cura soltanto con il vaccino, con una bella iniezione di Berlusconi a Palazzo Chigi, Berlusconi anche al Quirinale, Berlusconi dove vuole, Berlusconi al Vaticano. Soltanto dopo saremo immuni. L'immunità che si ottiene col vaccino".

Lei, Montanelli, oggi è diventato il problema politico principale del centrodestra. Da qualche giorno il suo nome è al centro delle dichiarazioni degli uomini del Polo.
"E' strano: io non avevo mai preso parte alla campagna di demonizzazione: tutt'al più lo avevo definito un pagliaccio, un burattino. Però tutte queste storie su Berlusconi uomo della mafia mi lasciavano molto incerto. Adesso invece qualsiasi cosa è possibile: non per quello che succede a me, a me non succede nulla, non è che io rischi qualcosa, è chiaro. Quello che fa male è vedere questo berlusconismo in cui purtroppo è coinvolta l'Italia e anche tante persone perbene.".

Tutta questa polemica è nata dal programma di Luttazzi. Lei vede programmi di satira politica in televisione? Come li giudica?
"Ne vedo, come no. Beh: l'unico modo per combattere questa cosa è la satira. Che sia sempre fatta bene però non direi, molto spesso è volgare anche quella. Ma forse è peggiore la facilità, la spontaneità con cui Berlusconi mente, e con cui le sue menzogne, a furia di ripeterle, evidentemente vengono bevute dagli altri. Lui racconta a modo suo la fine della mia direzione al Giornale, il giorno dopo la mia uscita, quando non ho potuto certamente influire più sulla stesura della cronaca. Paolo Granzotto scrisse un resoconto di come erano andate le cose. Ecco: andatevi a rileggere quella cronaca, coincide esattamente con le cose come le ho raccontate io. Berlusconi sostiene che io ero al Giornale sognando di farne un altro: non sta né in cielo né in terra. Questa menzogna è semplicemente una scemenza: quanta volgarità, quanta bassezza".

(26 marzo 2001)

www.repubblica.it

alcuni giudizi internazionali sulla devastazione Berlusconiana

"Negli ultimi cinque anni l'Italia ha perso in competitività nei confronti della Germania circa 15 punti in percentuale, mentre gli aumenti degli stipendi non sono stati bilanciati da aumenti della produttività. Il fallimento dell'Italia nel modernizzare le proprie industrie, e nell'affinare le tecnologie, ha lasciato il paese completamente esposto ai venti forti della concorrenza cinese, nel quadro di un'economia sempre più globalizzata... Come nel caso dell'Argentina, l'unica via di scampo per l'Italia consiste nel varare riforme strutturali a lungo termine per riprendere competitività" (Desmond Lachman, resident fellow dell'American Enterprise Institute - il think tank dal quale George W. Bush ha preso una dozzina di collaboratori, da Dick Cheney a John Bolton a Richard Perle-, Financial Times, 17 marzo 2006).

"I paralleli con l'Argentina prima della bancarotta non sono assolutamente da sottovalutare: la debolezza della crescita minaccia di aumentare, il debito pubblico crescerà ancora. Così, potrebbe instaurarsi una spirale d'indebitamento che, alla fine, costringerà l'Italia a lasciare l'Unione monetaria per ristrutturare il suo debito pubblico. Senza delle vere riforme, la probabilità che ciò si verifichi è assai grande, forse già in cinque anni... Se l'Italia vivesse un lungo periodo di grave recessione la gente considererebbe l'euro responsabile dei problemi economici. Alcuni politici, compreso il premier Berlusconi, già ora lo fanno. Tuttavia la colpa non è dell'Unione Europea, ma della mancanza di riforme... Il governo Berlusconi aveva un'occasione veramente favorevole: i tassi d'interesse erano bassi, Berlusconi gode di una comoda maggioranza in Parlamento, ma si è giocato alla leggera questa chance. La sua retorica è quella del liberalismo economico, ma in realtà si è trattato solo dei suoi interessi. Si è comportato come un monopolista che massimizza i propri utili" (Nouriel Roubini, consigliere del Fondo Monetario Internazionale, professore di Economia alla Stern School of Business, New York University, intervistato da "WirtschaftsWoche",17 marzo 2006).

Monday, May 22, 2006

ELEZIONI AMMINISTRATIVE SICILIANE 2006: VOTA RITA BORSELLINO

SEGNALO CHE SACCà , SATRAPO BERLUSCONIANO PRESSO LA RAI, HA BLOCCATO LO SCENEGGIATO SU PAOLO BORSELLINO , DICENDO CHE PER LA "PAR CONDICIO" NON LO SI PUò TRASMETTERE, POICHè PARLA DEL FRATELLO DELLA CANDIDATA ALLE REGIONALI , RITA BORSELLINO. ...
DISGUSTOSO!

"LA LOTTA ALLA MAFIA DEV'ESSERE INNANZITUTTO UN MOVIMENTO CULTURALE CHE
ABITUI TUTTI A SENTIRE
LA BELLEZZA DEL FRESCO PROFUMO DELLA LIBERTà CHE SI OPPONE AL PUZZO DEL
COMPROMESSO MORALE, DELL'INDIFFERENZA, DELLA CONTIGUITA’ E QUINDI DELLA
COMPLICITA’" (Paolo Borsellino)

SCANDALO MOGGI E GEA : l'italietta miserabile che non vuole scomparire

l'italietta miserabile che non vuole scomparire

purtroppo il calcio è solo lo specchio di quello che è diventato il decadimento etico, morale , di una società. Lo sport più seguito , popolare e quindi utilizzabile per scopi altri di propaganda imprenditoriale o/e politica è collassato, andato in cancrena, putrefatto e quando la puzza del marciume ha raggiunto la strada è stato finalmente scoperto il cadavere nelle stanze ammuffite della FGC . CArraro sembrava cadere dalle nuvole e dice che lui l'odore di cadavere non lo sentiva, lui è estraneo. Berlusconi invece passa a difendere il suo particulare, il suo scudetto, quello che gli spetta, atteggiandosi a onestissimo , integerrimo, innocente, ingenuo, imprenditore pallonaro del tutto estraneo alla morte del calcio.
Un cacio pieno di conflitti di interesse, dove il familismo, sempre qello, il cancro italiano, quello più impunito ,impenitente e spaccone perchè potente, quello degli occhiali scuri da bullo del Moggino figlio, erede del CApoccia postferroviario intrallazzone ; come Chiara Geronzi, figlia di tanto padre altrettanto intrallazzato ma in altro settore , quello bancario, che serve sempre; come I tanzi figli , che tutti conoscono, o il Lippi junior , poverino, voleva solo lavorare onestamente, anche se il babbo cattivo dice che lui mai e poi mai l'avrebbe aiutato; come il DeMita junior, figlio di politico di vecchia data, plenipotenziario campano dalla vecchia DC con furore, un tocco di politica verace ci vuole sempre. MAncava il figlio di qualche giornalista , ma già la geronzi ci ha pensato ad andare al TG5, essendo sicuramente bravissima e intelligentissima professionista , suleriore a migliaia di giovani che pur essendo meritevoli non davano adeguate garanzie ehm..CREDITIZIE. ALTRO CHE MERITOCRAZIA, ALTRO CHE PROFESSIONALITAA' , ALTRO CHE FLESSIBILITA' E IMPEGNO..questa è l'italietta di sempre, intrallazzona, prona davanti al potere, sbavante di fronte ai soldi del satrapo di turno e dei suoi scarrafoni, piezz'ecore. SPERIAMO CHE L'ARIA CAMBI, LA PUZZA DEL CADAVERE ANCORA C'è!

Saturday, May 20, 2006

Cossiga risponde alla gazzarra della destra

Lettera aperta al leader della Cdl dopo gli insulti per il voto dei senatori a vita
"Indegna gazzarra, non accetto le accuse di un 'Paperon' de Paperoni'"
Fischi al Senato, Cossiga a Berlusconi
"Infondate le accuse di immoralità"


Francesco Cossiga
ROMA - All'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga non è andata giù l'accusa di immoralità rivolta ieri da Silvio Berlusconi ai senatori a vita, aspramente criticati per aver votato la fiducia al governo Prodi. Accuse avventate e infondate, pronunciate con leggerezza, secondo quanto afferma lo stesso Cossiga in una lettera aperta indirizzata al Cavaliere.

Nella quale, innanzitutto, l'ex presidente stigmatizza senza mezzi termini "l'indegna gazzarra inscenata dai gruppi parlamentari della Casa delle Libertà mentre esprimevano il loro voto a favore della mozione di fiducia al Governo Prodi i senatori a vita, di diritto e di nomina presidenziale". Gente come Andreotti e Scalfaro, "ragazzotti che da oltre mezzo secolo "battono" le strade della politica", abituati a ben più violenti tipi di scontro e colluttazioni, "ma con minore astio, maleducazione e cattiveria", scrive Cossiga ricordando i tempi di Pajetta e Almirante. Fischi e contestazioni che non hanno risparmiato neanche Carlo Azeglio Ciampi.

"Ben diversa", prosegue, "è l'accusa di 'immoralita che tu, con molta avventatezza e leggerezza, hai rivolto ai senatori a vita. "Si fosse trattato di un'accusa per qualche mio normale ma irregolare 'rapporto' per così dire sentimentale con qualche bella ragazza venezuelana o napoletana da te presentatami, passi! Ma la 'politica' e il servizio dello Stato", continua Cossiga, "sono stati per me e per la mia famiglia cosa troppo seria, perchè io possa accettare accuse di immoralità da un, anche se simpatico e abile, 'Paperon dei Paperoni' prestato alla politica, e non senza utile personale!".

Cossiga ricorda all'ex premier: "Avevo proposto, il giorno che furono indette le elezioni, che i senatori a vita, di diritto e di nomina presidenziale, qualora nel voto per la fiducia al nuovo governo il loro singolo voto dovesse essere determinante in un senso o nell'altro, al fine di non alterare il risultato elettorale, espressione della volontà popolare, si dovessero astenere dal voto, pur dichiarando la loro preferenza politica. Ma questa mia tesi e proposta non è stata accolta da nessuno".

E invita l'ex premier a fare un passo indietro nel tempo, nel giorno in cui "il governo Berlusconi ottenne la fiducia per un solo voto, a garantirla tre senatori a vita: Giovanni Agnelli, Francesco Cossiga e Giovanni Leone. Nessuna accusa di 'immoralita ci fu rivolta allora nè dalla sinistra nè...Da te!".

(20 maggio 2006)
www.repubblica.it

COSA PENSA IL POPOLO: IL METODO GOEBBELS DELLA DESTRA ITALIANA

QUELLO CHE PENSA IL POPOLO : METODO GOEBBELS

TIPICO METODO A' LA GOEBBELS è quello di preventivamente stabilire e dire ciò che "pensa" il popolo, o meglio
"CIO' CHE DEVE PENSARE" perchè fa comodo al capoccia ed ai suoi sgherri del triclinio delle libertà . Sempre a dire ed a inculcure cttraverso i proclami ,le Fatwe , le giaculatorie ossessive, al popolino, quello che deve pensare. E' IL tipico metodo Berlusca P2 (DA "PROPAGANDA 2" ,LA LOGGETTA MASSONICA SEGRETA su cui ciasuno può documentarsi facilmente) , propagandare il pensiero , dire cosa PENSA IL POPOLO, come succede sempre ,immancabilemente prima di elezioni, quando su mediaset appare l'oracolo DEL DEBBIO con trasmissioni tipo "cosa pensa la gente" , è tutto un "la gente PENSA" E NON CI SI ACCORGE CHE QUESTA GENTE STA lobotomizzando il popolino per arrivare a poterlo MANIPOLARE in tutti i modi,attraverso la tribuna TV che conta MILIONI DI UTENTI , salvo poi lamentarsi della stampa, che di utenti ne può contare al mx qualche centinaio di migliaia, del Gruppo Espresso che, a detta loro sarebbe illiberale, TUTTO è COMUNISTA SE NON è IRREGIMENTATO NELLE LORO SQUADRACCE.
OGGI quell'esempio di signorilità che risponde al nome di Feltri, aspirante-fallito- erede del grande MONTANELLI, nel suo LIBERO (di nome ,non di fatto) ha titolato "LA RIVOLTA DEI PANNOLONI" , un titolo rivolto ai senatori a vita in modo squadrista o, lasciando stare il fasismo, semplicemente CAFONE,maleducato, irrispettoso dell'anzianità e del valore di questa. Questi sarebbero i paladini della famiglia e dei VALORI, DEL CATTOLICESIMO, DEL RISPETTO DELLA VITA, chiamano delle persone che hanno onorato l'italia (Andreotti e Ciampi li avete esaltati fino a ieri..quando non vi nuocevano e vi facevano comodo) usando una metonimia degna del giovanilismo fascista più ignorante e bieco e razzista, solo perchè i 7 senatori NON HANNO FATTO QUELLO CHE VOLEVATE VOI della destra impresentabile di stampo Berlusconiano, e pur non essendo determinante il loro voto LI RINGRAZIO SENTITAMENTE.

CDebord 20 maggio 2006

Wednesday, May 17, 2006

Moggi per Galliani : Italia Pallonara

Un'altro squarcio sul sistema miserabile che vigeva nel calcio italiano da qualche tempo. Ecco cosa faceva Moggi per sostenere Galliani alla presidenza della Lega Calcio.

Le pressioni del direttore generale della Juventus
per confermare il rossonero alla presidenza della Lega

Moggi e l'elezione di Galliani
"Berlusconi convincerà Cellino"
Nei verbali delle intercettazioni le telefonate dell'ex dg

ROMA - L'elezione della Lega professionisti nell'informativa dei carabinieri del nucleo operativo che hanno aperto la maxi-inchiesta sulla cupola nel calcio. Ecco cosa accadeva. Luciano Moggi riceve una telefonata dal vicepresidente federale Innocenzo Mazzini: "Comunque m'ha detto Lotito che tu avevi ragione, bisognava votare ieri", aggiungendo poco dopo "... E poi la Lega nazionale dilettanti è a posto noi, loro insomma son già schierati, cominciano a fare l'assemblee tutti, in tutta Italia, in attesa di notizie...".

Il loro gruppo è al lavoro. Per raggiungere il risultato finale della riconferma di Galliani l'organizzazione moggiana utilizza ogni strumento di pressione inglobando anche i risultati raggiunti da quella esercitata dallo stesso Galliani l'appoggio - sostiene Moggi - del premier Silvio Berlusconi. "Oggi ho parlato con Giampaolo Pozzo, mi sembra di essere a buon punto, mi sembra! Non... Non ho ancora la certezza, comunque con Cellino mi dice Galliani non ci son problemi perché lo fa votare Berlusconi".

Mazzini chiama Luciano Moggi e dice:
Mazzini: "Ho sentito Galliani, voleva sapè della Ternana, la Ternana da oggi è della moglie di Longarini".
Moggi: "Ma quello era già... Non ... Non da oggi! Quello era già da diverso tempo".
Mazzini: "C'è stato ieri il passaggio delle quote dal Notaio. E... E... Fioretti resta ed ora prendono un direttore sportivo. Sono orientati a votare Galliani".
Moggi: "È già una cosa importante, questa, eh? Ad Adriano glielo hai detto?".
Mazzini: "E gli ho detto che gli creeremo un contatto in modo che possa parlare definitivamente con questi qui, che sono orientati a votare loro nonostante che Longarini sia di Ancona ma ha sui coglioni Della Valle".

Moggi: "Invece io ti volevo dire, adesso, parliamo di un'altra cosa importante. Dunque, quando io vado a Roma. Adesso voglio smettere con Carraro di cose che, in pratica, poi vanno a finire immediatamente al Coni. Perché ieri, non so se te l'ho detto, mi prende Petrucci e mi fa: dice, ma mi ha detto Franco che ti ha mandato a fanculo. Ma è proprio un ragazzetto Franco? E' vero! Io mandai a fanculo Nizzola! Non c'è niente di strano! Però queste cose da dì, se le diciamo, no, mettiamo in allarme gli avversari!".
Mazzini: "Certamente!".
Moggi: "Adesso, quello che bisogna fare è andare appresso a queste cose. Io oggi ho parlato con Giampaolo Pozzo, mi sembra di essere a buon punto. Con Cellino mi dice Galliani non ci son problemi perché lo fa votare Berlusconi".
Mazzini: "Infatti. "Infatti io mi meravigliavo che non fosse successo questo!".

Moggi: "Il Pescara, Paterna, lo convinco io, quindi non penso ci siano grossi problemi, le uniche società che non si possono convincere, probabilmente, sono l'Ascoli e il Piacenza. Soprattutto quel cretino di Benigni che in pratica non appoggia...".
Mazzini: "Ma nella B è stato fatto un lavoro capillare?".
Moggi: "È in corso! E' in corso il lavoro capillare e lì penso che qualche risultato lo porto, però ho i miei dubbi che si arrivi il 29 a far qualcosa! Io c'ho i miei dubbi, eh? .... Omissis... (Moggi parla al telefono con altra persona)... Ho i miei dubbi che però sciolgo la prossima settimana!".

Tuesday, May 16, 2006

Beppe Pisanu ,Luciano Moggi e La Torres Calcio

in queste vicende c'è tutto il peggio dell'Italietta pallonara di questi anni: una società senza cultura , in balia di qualche rais del pallone , sempre a bocca aperta a guardare movioloni ed improbabili guru del processo di Biscardi, Controcampo e altro demenziale teatrino pallonaro , che alla fine si rende conto della realtà che era sotto gli occhi di tutti da tempo, che il calcio non è più uno sport ma un miserabile scambio di favori, di interessi, un business spesso legato anche agli interessi elettorali di rappresentanti politici sempre più volgari e pronti u utilizzare la mania calcistica per avere potere : PANEM ET CIRCENSES , si diceva nell'antica Roma, diamo al popolino un minimo di pane e distraiamolo col circo, poi potremo fare ciò che più ci piace. Che Schifo!

Quando si pone il problema di aiutare la Torres Sassari, che gioca in serie C1, è proprio a Moggi che il ministro Pisanu chiede aiuto. «È una cosa importante - gli spiega - anche in vista delle elezioni». Il ministro naturalmente non immagina che il cellulare di Moggi sia sotto controllo. Lo chiama l’8 febbraio attraverso la segreteria.

Pisanu: «Pronto».
Moggi: «Beppe!».
Pisanu: «Ciao Luciano come stai?».
Moggi: «Tutto bene tutto bene... insomma... risultati bene, poi critiche...».
Pisanu: «Senti Lucià! Io ti telefono perché so che sabato viene a trovarti il presidente della Torres Calcio...».
Moggi: «Io ti avrei chiamato stasera a casa».
Pisanu: «Eh, allora quando viene tu dagli la mia Apostolica Benedizione. Digli che lo ricevi grazie a me».
Moggi: «Vai tranquillo Beppe!».
L’interessamento a quanto pare va a buon fine. Dopo qualche settimana la Torres vince in trasferta. I dirigenti chiamano Moggi. È il 20 marzo 2005.
De Nicola: «Missione compiuta la Torres ha vinto e...».
Moggi: «Eh, alla grande!».
De Nicola: «Sto qui con il presidente, te lo passo».
Presidente: «Luciano, erano due anni che non vincevo in trasferta Lucia’».
Moggi: «E lo vedi che si comincia bene vai tranquillo».
Presidente: «Mamma mia, due anni che non vincevo in trasferta».
Moggi: «Eh ma c’è sempre la prima volta vai tranquillooo...».
Presidente: «Abbiamo iniziato bene insomma eh».

Il 26 marzo il ministro Pisanu torna ad interessarsi della questione. Insieme al presidente della Torres Rinaldo Carta chiama Moggi: « Abbiamo fatto una bella chiacchierata su vari problemi e siccome pensiamo di dare un rilancio forte alla Torres, abbiamo assoluto bisogno di te! ». Moggi lo rassicura, parla con Carta di un nuovo manager al quale affidare la squadra. Poi la cornetta passa nuovamente a Pisanu. E viene affrontato il problema degli arbitri.

Pisanu: «Allora Lucia’!».
Moggi: «No no ma adesso vediamo un pochino di studiarci perbene la cosa... Direi con la Juventus, vediamo un po’ di fare un lavoro, di ridare un po’ di entusiasmo. È chiaro che ora fino alla fine del campionato bisogna che la strada vada avanti nel migliore dei modi».
Pisanu: «E be’ con la speranza che non abbia... che so che abbia qualche manina di aiuto per salvarla dalla... da rischi gravi... insomma ecco!».
Moggi: «Ma perché ha problemi di retrocessioni?».
Pisanu: «E, oggi ci siamo ritrovati un arbitro... Che aveva già combinato guai. Lo hanno rimandato... l’hanno rimandato a Sassari mentre se lo potevano tenere da qualche altra parte».
Moggi: «Va bè, ora me la vedo io».

Come dimostrano le altre telefonate intercettate, Moggi effettivamente si occupa della vicenda. E alla fine «dopo aver consultato Franco Causio e Mauro Sandreani, decide di inserire nella società l’ex giocatore Cuccureddu, in quota Gea. Quando Carta gli chiede il costo Moggi risponde tranquillo: " Me ne occupo personalmente " » .



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Monday, May 08, 2006

Presidenza della Repubblica : Anna Finocchiaro Presidente

io ,fossi al posto dell'Unione ,voterei una donna : Anna Finocchiaro .

ennesima falsificazione : figuranti al congresso americano per Berlusconi

Ad applaudire Berlusconi al congresso Usa stagisti e figuranti


di Bruno Miserendino
D'accordo, era una notizia scomoda da dare. Se un presidente del consiglio italiano parla al Congresso americano, un'opportunità non concessa a tutti ma solo agli alleati importanti, perchè rimarcare il fatto che nell'aula solo una parte erano effettivamente parlamentari americani e il resto, la maggioranza, erano stagisti, consiglieri, addetti e funzionari che hanno fatto claque?

La domanda è giusto porsela, le risposte possibili sono molte. Si può decidere di trattare la notizia come un doveroso elemento di cronaca senza enfatizzarlo, si può decidere di accennarlo spiegando che spesso, nel Congresso Usa, accade così, si può decidere di rimarcare il fatto spiegando che quindi quell'entusiasmo bipartisan che traspariva dalla diretta era un po' costruito, si può insomma trattare la notizia come si vuole, secondo l'idea che ogni giornalista ha del diritto di cronaca.

L'unica cosa che non dovrebbe accadere è che la notizia venga totalmente ignorata dalla stragrande maggioranza dei media, televisioni, radio, Televideo, giornali di tutte le simpatie politiche con l'eccezione dell'Unità, della Stampa, che gli ha dedicato un piccolo titolo in una pagina interna, e di pochissimi altri. Complessivamente un silenzio tombale, che ha il sapore dell'autocensura.

Perchè, attenzione, questo non è un caso di notizia sfuggita ai più, o arrivata tardi nelle redazioni. Tutti o quasi tutti gli inviati al seguito del nostro presidente del consiglio l'hanno saputa e segnalata, (anche perchè l'hanno visto con i propri occhi), molti l'hanno scritta nei loro pezzi, con diverse sfumature di rilievo. Di più: l'inviato dell'Ansa Cristiano Del Riccio l'ha scritta in un perfetto servizio riepilogativo messo in rete alle 21,30 ossia quando nelle redazioni dei giornali ancora si stanno facendo i titoli ai pezzi. I nostri quotidiani, come le televisioni e le radio, hanno confezionato un profluvio di servizi sull'evento, come è possibile che questa notizia sia stata completamente oscurata? Perchè non era una notizia? Perchè disturbava? Perchè cambiava il senso dell'evento su cui tutti avevano costruito il lavoro?

Francamente è difficile non considerarla una notizia. Se il senso dell'evento era che il presidente del consiglio aveva ottenuto l'entusiastico applauso dell'intero congresso americano all'unisono, compresi quei democratici che sicuramente farebbero il tifo per la vittoria di Romano Prodi il 9 aprile, spiegare che in quell'evento c'era molto di spettacolo costruito, non era fare professione di disfattismo, era segnalare un dato di cronaca importante. Tanto è vero che il New York Times l'ha considerata una notizia e l'ha scritta nel suo servizio.

I cittadini italiani, invece, sono al momento autorizzati a pensare che anche tutti i parlamentari democratici americani sono stati ammaliati, convinti e trascinati dal discorso di Berlusconi. C'è un unico problema: non è vero. C'erano pochissimi democratici presenti, perchè la grande maggioranza aveva sentito puzza di spot elettorale e anche i repubblicani erano qualche decina. In totale un decimo degli aventi diritto. Se non entravano stagisti, figuranti, consiglieri e portaborse, Berlusconi avrebbe parlato in un'aula semivuota, come accade da noi quando i ministri o i sottosegretari rispondono al question time.

Questa è la realtà, si può commentarla e valutarla come si vuole, ma perchè nasconderla? E' un episodio su cui riflettere. Se si vuole, naturalmente.

www.beppegiulietti.info

Thursday, May 04, 2006

Nascita dell'impero Berlusconi

tratto dall'interesante sito http://www.uonna.it/ragnatela4.htm

5. Nascita dell'impero economico del Cavalier Silvio Berlusconi L'attività imprenditoriale di Silvio Berlusconi ha inizio intorno ai primi anni ‘60, grazie ad una fideiussione della Banca Rasini di Milano, implicata nel riciclaggio di denaro sporco proveniente dai traffici illeciti di Cosa nostra siciliana: questo, secondo un rapporto della Criminalpol di quegli anni, successivamente confermato dalla testimonianza del faccendiere mafioso Michele Sindona!! Vittorio Mangano, assunto in seguito da Berlusconi in qualità di custode e stalliere della sua villa di Arcore, avrebbe fatto da tramite tra l’Istituto di credito e il capo della cupola di allora, Stefano Bontade.
L’impero berlusconiano, comunque, ha preso avvio a Roma, in Salita San Nicola da Tolentino l/B, il 16 settembre 1974, con la costituzione della società immobiliare "San Martino s.p.a", con amministratore unico Marcello Dell'Utri.

La romana Immobiliare San Martino, trasformatasi in seguito nella milanese "Milano 2 s.p.a.", ebbe un ruolo essenziale nella costruzione della omonima "città satellite".

Le compravendite di terreni e immobili si articolano in atti notarili tra soggetti diversi, ma gli interessi sottostanti hanno una medesima matrice e regia: infatti, la società "Milano 2 s.p.a" è controllata dalla "Fininvest", e la Fininvest è una società costituita dalle società fiduciarie "Servizio Italia" e "Saf"(Società azionaria fiduciaria).

"Servizio Italia" e "Saf" sono società fiduciarie, e dunque agiscono su mandato di terzi coperti dall’anonimato (la formula utilizzata nelle operazioni è " Per conto di società enti o persone da dichiarare").
La neocostituita società Immobiliare San Martino rimase inattiva fino alla metà del 1977, quando elevò il proprio capitale sociale, dall’originario un milione, a mezzo miliardo, e trasferì la propria sede a Milano. Poco dopo, nel settembre 1977, mutò la propria denominazione in "Milano 2 spa".

Il singolare schema operativo - costituzione, sensibile aumento di capitale, trasferimento della sede a Milano, e mutamento della ragione sociale - si ripeterà come una costante per tutte le società del gruppo Fininvest, promosse dal parabancario Bnl. Nel costituire la Immobiliare San Martino, dunque, le due fiduciarie si muovevano in nome e per conto di altri, così come Dell’Utri (attraverso Rapisarda in contatto col boss Ciancimino) si muoveva in nome e per conto di altri.

La sua stessa uscita di scena (Dell’Utri il 13 settembre 1977 si dimette dall’incarico di amministratore unico) risultava analogamente ambigua, quasi che "il siciliano" avesse condotto in porto un’operazione e quindi avesse così concluso il proprio compito.

Quando nel settembre 1977 Marcello Dell’Utri cessò dalla carica di amministratore unico, gli subentrò Giovanni Dal Santo, commercialista, nato a Caltanissetta, ma attivo a Milano, dove curava interessi vicini alla Banca Nazionale del Lavoro, (Bnl)Holding.
Secondo l’avvocato Giovanni Maria De Mola, in un memoriale del costruttore Filippo Alberto Rapisarda (consegnato al giudice Della Lucia, del Tribunale di Milano), lo stesso Rapisarda sostiene di avere associato Dell’Utri nelle proprie attività edilizie, in seguito alla pressante "raccomandazione" in tal senso rivoltagli dal boss mafioso Stefano Bontade.
L’atto costitutivo della società immobiliare San Martino venne sottoscritto dal banchiere piduista Gianfranco Graziadei, per conto della fiduciaria Servizio Italia spa, e da Federico Pollak (87 anni, dirigente della Bnl fin dalla fondazione) per la Saf, Società azionaria fiduciaria spa. Entrambe le fiduciarie sono società della Bnl Holding (il parabancario del grande Istituto di Credito), il cui centro di potere direzionale era assolutamente condizionato da Licio Gelli e dalla sua Loggia P2.

Era presente alla costituzione della Immobiliare San Martino anche Marcello Dell’Utri, il quale venne nominato, come abbiamo visto in precedenza, amministratore unico della neocostituita società.

Costui diventerà uno dei più stretti collaboratori di Berlusconi e amministratore delegato di Pubblitalia 80, la potente concessionaria di pubblicità delle reti televisive Fininvest.

Questo Marcello Dell’Utri è un personaggio in odore di mafia, come rivela un rapporto della Criminalpol, datato 13 aprile 1981: "L’aver accertato attraverso la citata intercettazione telefonica il contatto tra Mangano Vittorio, di cui è bene ricordare sempre la sua particolare pericolosità criminale, e Dell’Utri Marcello ne consegue necessariamente che anche la Inim spa e la Raca spa, (società per le quali il Dell‘Utri svolge la propria attività), operanti in Milano, sono società commerciali gestite anch’esse dalla mafia e di cui la mafia si serve per riciclare il denaro sporco, provento di illeciti."

Il palermitano Marcello Dell’Utri, transitato per primo, nel 1974, in Salita San Nicola da Tolentino l/B, all’epoca gravitava nel giro degli amici di Vito Ciancimino, e il suo trasferimento dalla Sicilia a Milano non era certo il viaggio dell’emigrante in cerca di fortuna.

Quando venne nominato, a Roma, amministratore unico della Immobiliare San Martino, Dell’Utri era già residente a Milano, in via Arcimboldi 2.

Dunque, la sua altrimenti inspiegabile presenza a Roma per la costituzione della società, testimonia come egli si trovasse in Salita San Nicola da Tolentino I B in rappresentanza di precisi interessi.
La costruzione del gruppo Fininvest richiese vari anni. La Fininvest sri era nata il 21 marzo 1975 al solito indirizzo di Salita San Nicola da Tolentino 1/B, per opera dei soliti, avvocato Gianfranco Graziadei e commendatore Federico Pollak.

Secondo il solito schema, due mesi dopo la costituzione aumentò il capitale sociale dagli originari 200 milioni a 2 miliardi, dopodiché, nel novembre 1975 si trasformò da "srl" in "spa", e quindi trasferì la propria sede a Milano.

Fu solo allora che Berlusconi apparve per la prima volta nel campo d’azione della piduista Bnl Holding, assumendo la presidenza del consiglio di amministrazione della Fininvest.
E’ significativo che, quando assunse la presidenza della Fininvest, Berlusconi fosse affiancato da "controllori" della Bnl Holding, Umberto Previti, Cesare Previti, Giovanni Angela, componenti del collegio sindacale; solo l’anno dopo essi cedettero il posto a noti professionisti milanesi.

La Fininvest assunse il controllo di "Milano 2 spa" (100 per cento) e di Italcantieri, nonché di altre società che vedremo in seguito.

L’Italcantieri era la società "svizzera" che aveva in appalto la costruzione della "città satellite" a Segrate, cioè "Milano 2".

Nacque così il "gruppo Fininvest" nella sua prima struttura.

Fino a questo momento, capitale sociale e aumenti di capitale erano sempre stati sottoscritti da Servizio Italia e Saf. Anche in seguito, ogni ulteriore aumento di capitale della Fininvest sarà riservato esclusivamente ai vecchi soci, come era esplicitamente precisato nelle delibere assembleari.

Del resto, negli anni cruciali, durante i quali il gruppo si è formato, il "signor uno per cento", Silvio Berlusconi, non possedeva certo di suo gli ingenti capitali che vi vennero investiti.
Invero, le società di ‘matrice romana’, che gravitavano nell’orbita del parabancario Bnl e che confluirono nel gruppo Fininvest, furono molte altre, rispetto a quelle citate; con il loro trasferimento a Milano, tutto l’ambito delle attività si spostò definitivamente al nord.
Fu proprio nell’agosto di quello stesso 1975 che Licio Gelli, il Venerabile maestro della Loggia P2, aveva elaborato il suo "Schema R" e in quello stesso autunno 1975 la Loggia segreta stava mettendo a punto il suo "Piano dì rinascita".

La definitiva consacrazione di Berlusconi avvenne solo nel luglio 1979, quando fu nominato presidente del consiglio di amministrazione della nuova grande Fininvest, (fusione della Fininvest milanese con quella romana), forte di 52 miliardi di capitale sociale.

L’interesse della Fininvest per il settore editoriale e tipografico si manifestò assai presto. Già nel 1977 la Fininvest acquisì una partecipazione del 50 per cento nell’impresa tipografica Sies di Umberto Seregni ed entrò nella proprietà del "Giornale nuovo", col 12 per cento. Due anni dopo aumenterà la sua partecipazione al 37 per cento.

Un’attenzione ancora più precoce venne riservata alla televisione.

Telemilano, dopo una lunga gestazione, nel 1978 si trasformò repentinamente da via cavo a via etere e, l’anno successivo, cominciò l’attività di emittente commerciale.
Alla fine del 1979 la Fininvest srl annoverava due partecipate e ventidue società controllate, alcune delle quali a loro volta detenevano partecipazioni, o il pacchetto di controllo di altre.

Il gruppo si articolava in nove settori:

progettazione e servizi,
costruzioni,
immobiliare,
trasporti,
editoriale e di comunicazioni (Tv),
finanziario,
spettacolo,
sport e tempo libero,
ristorazione.
Era un assetto provvisorio, soggetto a mutamenti e trasformazioni, che si sono susseguite con grande rapidità.
Vero è che la struttura del gruppo Fininvest andò evolvendosi fin dall’inizio verso un duplice obiettivo:

mantenere "coperta" la reale articolazione proprietaria, garantendo l’anonimato dei possessori del nascente impero,
eludere l’imposizione fiscale.
Esemplare, in questo senso, fu la costituzione delle 22 Holding, Italiana Prima, Seconda, Terza, eccetera: "Un meccanismo", come ammetterà Giancarlo Foscale, amministratore delegato della capogruppo Fininvest, "che ci consente un risparmio sulle imposte valutabile intorno al 30-40 per cento".
Infatti le 22 Holding sono "scatole vuote", con la sola funzione di incassare i dividendi quali azioniste della Fininvest.

In sostanza, i padroni dell’impero, Berlusconi e i suoi occulti soci, detengono le obbligazioni delle holding e, attraverso queste, incassano gli utili di tutto il gruppo con due vantaggi: rimangono anonimi e pagano, invece della imposta progressiva sul reddito, il solo 10 per cento delle somme riscosse.

Lo spericolato marchingegno offre anche altri vantaggi fiscali: alternando nel tempo guadagni e perdite, consente di sfruttare il cosiddetto "credito d’imposta" della legge Pandolfi.

L’intricata struttura dell’impero berlusconiano si delinea come una ragnatela di società, fiduciarie, scatole vuote, prestanome, holding, con "incestuosi incroci azionari".

Se risultava evidente l’intento di eludere la tassazione, sottraendo al fisco somme ingenti, l’arzigogolato assetto dell’impero Fininvest venne concepito e strutturato con l’iniziale e costante ricorso ai prestanome, proprio allo scopo di coprire con l’anonimato l’identità dei suoi reali possessori.

Quanto alle fiduciarie, si tratta per l’appunto del più classico dei paraventi legali: "Un sottile schermo per coprire gli effettivi proprietari", confermava l’ex presidente della Bnl Nerio Nesi. "Quando si usano fiduciarie per l’intestazione di azioni, l’ipotesi più plausibile è che ci siano soci che non gradiscono apparire."

Si è visto come le due fiduciarie Servizio Italia e Saf, fonte originaria del futuro gruppo Fininvest, facciano capo alla Banca Nazionale del Lavoro. Negli anni Sessanta la Bnl era il maggiore istituto di credito italiano di diritto pubblico, nono nella graduatoria mondiale. L’avvento del centrosinistra aprì il suo consiglio di amministrazione anche al PSI: vi entreranno Aldo Aniasi (1963), Antigono Donati (1966), Nerio Nesi (1978), Ruggero Ravenna (l980). Donati e Nesi ne assumeranno anche la presidenza.

Nella seconda metà degli anni Settanta, il colosso creditizio registrò evidenti segnali di crisi, specie nell’importante settore del parabancario, in forte espansione. Infatti, le società operanti nel parabancario Bnl aumentarono al ritmo di una decina l’anno. Nel l979 erano una dozzina e, nel giro di un decennio, diverranno 82, di cui 24 controllate, tutte facenti capo alla Bnl Holding.
L’amministratore delegato della Bnl Holding, Carlo Alhadeff, da tempo in contrasto con i vertici della Banca, il 31 marzo rassegnava le dimissioni e diffondeva un comunicato-stampa: "Questa mia decisione", spiega, "nasce dall’esigenza di tutelare la mia credibilità nei confronti dell’esterno e della stessa Bnl, alla quale attualmente non mi è più possibile garantire la bontà della gestione e la correttezza dei risultati della Bnl Holding e delle sue controllate" - si trattava di una chiara presa di distanze rispetto a quanto avveniva nelle varie società del parabancario Bnl.
La capogruppo del parabancario Bnl risulta essere la Banca Nazionale del Lavoro Holding Italia spa.

Il termine "Italia", come si vede, è ricorrente (Servizio Italia, Italcantieri, e tutta una sfilza di Holding Italiana), e gli stessi, ricorrenti numeri (Milano 2, Milano 3, Italia 1, Canale 5, Rete 4, ecc.) ricordano una qualche fantasiosità da ragionieri di banca.

Con il termine parabancario si intendono tante cose: leasing, factoring, intermediazione finanziaria, fondi comuni, gestioni patrimoniali, partecipazioni, recupero crediti, amministrazione fiduciaria.

Nel parabancario Bnl, le fiduciarie sono soltanto la Saf,(Società azionaria fiduciaria), e Servizio Italia; esse fanno capo al ristretto comitato esecutivo della Bnl Holding, presieduto dallo stesso presidente della banca e formato da alti dirigenti interni e dai vertici delle principali controllate.
Servizio Italia era presente in tutte le vicende del bancarottiere mafioso e piduista Michele Sindona.

Della Capitalfin di Nassau, l’esotico "paradiso fiscale", una delle "casseforti" sindoniane, presidente era Alberto Ferrari, ai tempi anche presidente della Bnl, segretario era Gianfranco Graziadei, che era anche direttore generale di Servizio Italia.

Ferrari e Graziadei risulteranno entrambi affiliati alla Loggia segreta P2 .

Gli editori piduisti Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din operavano attraverso Servizio Italia.

I maneggi piduisti con la casa editrice Rizzoli e il "Corriere della Sera" si avvalevano di Servizio Italia.

La miliardaria operazione speculativa con la Savoia Assicurazioni da parte della Loggia P2 era curata da Servizio Italia, così come i traffici di Gelli, con 217 mila azioni Italimmobiliare.

Il Venerabile maestro della Loggia P2 scriveva all’affiliato Tassan Din, indirizzando non già al suo domicilio privato o presso la Rizzoli, bensì presso la sede di Servizio Italia.

Nel luglio 1982, pochi giorni prima del suo arresto in relazione alla morte del banchiere piduista Roberto Calvi, il faccendiere Flavio Carboni disporrà l’intestazione fiduciaria delle sue società a Servizio Italia...

E' dunque assodato che Servizio Italia, formalmente Bnl, è pienamente controllata dalla Loggia P2 e che, dietro il suo schermo, si celano anche società e interessi di ogni sorta.
Quanto alla Saf, Società azionaria fiduciaria, negli anni in cui essa concorreva, con Servizio Italia, a creare le fondamenta del gruppo Fininvest, l’età media dei suoi dirigenti era prossima agli 80 anni.

Il vicepresidente era Federico Pollak, nato nel 1887; il presidente del consiglio di amministrazione, Federico D’Amico, era del 1908; tra i consiglieri, Silvestro Amedeo Porciani era del 1892, il colonnello in pensione Anatolio Pellizzetti del 1907.

Risultava dunque del tutto non plausibile l’attribuzione a un gruppo di funzionari ottuagenari degli ambiziosi e avveniristici progetti, che sottendono la nascita del gruppo Fininvest: progettazione, costruzione, commercializzazione di "città satellite" e annessi servizi, ma anche trasporti aerei privati, attività parabancarie, televisione commerciale...

E' evidente che "la mente", il "centro propulsore" del grandioso programma "a tutto campo" era altrove, e precisamente nella Loggia massonica segreta Propaganda 2 e nel suo "Piano" per il controllo politico ed economico del Paese.
Non a caso, la prima banca "infiltrata" dai piduisti, e quella penetrata più massicciamente e al più alto livello, era il più importante Istituto di Credito nazionale, e cioè la Banca nazionale del Lavoro, con ben nove affiliati alla Loggia segreta tra i massimi dirigenti - come avrà modo di confermare lo stesso Licio Gelli, tramite il proprio legale: "Numerose banche italiane hanno annoverato negli anni, che vanno dal 1975 al 1981, tra i loro massimi dirigenti, appartenenti alla Loggia P2; e meglio, la Banca Nazionale del Lavoro 4 membri del consiglio di amministrazione, il direttore generale, tre direttori centrali e un segretario del consiglio..." .

Tra i piduisti insediati ai vertici della Bnl, e agli ordini del Venerabile maestro, sei controllavano tutta l’attività operativa della banca:

Mario Diana (responsabile del Servizio titoli e Borsa, tessera P2 1644 col grado di "maestro"),
Bruno Lipari (direttore centrale delle filiali, tessera P2 1919 col grado di "maestro"),
Gustavo De Bac (direttore centrale per gli affari generali, tessera P2 1889 col grado di "apprendista"),
Gianfranco Graziadei (amministratore delegato, e direttore generale di Servizio Italia tessera P2 1912 col grado di "maestro"),
Alberto Ferrari (già direttore generale della Bnl, e infine responsabile del settore estero. tessera P2 1625 col grado di "maestro"),
Raffaele Guido (responsabile relazioni esterne).
Il sindoniano balletto di società che nascevano, si associavano, si fondevano e si trasformavano, aveva trovato nuovi e ancora più audaci imitatori.
Qual'è l’identità di coloro che hanno sottoscritto i mandati fiduciari conferiti a Servizio Italia e Saf (società azionaria fiduciaria), le due società della Bnl Holding che pongono le basi del futuro gruppo Fininvest?

Mistero!!


Interrogativi e perplessità circa la reale proprietà della Fininvest emergono periodicamente sulla stampa e vengono puntualmente e laconicamente smentite da fonti berlusconiane. Così, quando Marco Borsa, ex direttore di "Italia Oggi" scrive: "La Fininvest è teoricamente di proprietà della famiglia Berlusconi, ma nessuno lo sa con precisione", gli replica Fedele Confalonieri, nella sua veste di amministratore delegato della Fininvest Comunicazioni: "La Fininvest appartiene alla famiglia Berlusconi in modo effettivo e totale" - un’affermazione tanto perentoria quanto accuratamente priva di riscontri.

Risulta del resto evidente come non sia stato Berlusconi a creare la Fininvest, ma come sia stata la Fininvest delle fiduciarie e delle banche piduiste a imporre il piduista Berlusconi alla ribalta dell’imprenditoria nazionale.

Già verso la metà degli anni 70 "L’Espresso" e "Panorama" si erano occupati della rapida ascesa di Berlusconi nel mondo degli affari e ne denunciavano traffici e chiacchierati compari.

A causa della sua iscrizione alla Loggia P2, segreta e quindi illegale, Silvio Berlusconi venne anche processato per falsa testimonianza davanti al pretore di Verona prima, e condannato poi davanti alla corte di appello di Venezia, con la seguente motivazione:

"…Ritiene il collegio che le dichiarazioni dell’imputato non corrispondano a verità". Una condanna per spergiuro!!!

In sostanza, infatti, secondo Berlusconi, la sua non ben definita adesione alla P2 avvenne poco prima del 1981 e non si trattò di vera e propria iscrizione, perché non accompagnata da pagamenti di quote, appunto di iscrizione, peraltro mai richiestegli.

Tali asserzioni sono state smentite anche dalle risultanze della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2, presieduta dalla democristiana Tina Anselmi, non certo una comunista, nella cui relazione si legge: "...alcuni operatori (Genghini, Fabbri, Berlusconi) trovano appoggi e finanziamenti al di la’ di ogni merito creditizio...", e dalle stesse dichiarazioni rese dal prevenuto Berlusconi davanti al G.I. di Milano, e mai contestate, secondo cui la sua iscrizione alla P2 avvenne nei primi mesi del 1978.

La vicenda Berlusconi-P2 si conclude il primo ottobre 1990 con l’estinzione del reato per amnistia.

Berlusconi ha accettato l’amnistia allora, come di recente nel processo relativo al lodo Mondadori, ha accettato la prescrizione, in presenza di gravi indizi di colpevolezza elencati dalla Corte di Cassazione.

Nel 1998 gli investigatori della DIA di Palermo sequestrarono i documenti contabili delle ventidue holding del gruppo Fininvest, nell’ambito dell’inchiesta su Marcello Dell’Utri, deputato di Forza Italia, sotto processo a Palermo con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.

I magistrati di Palermo sospettavano che capitali di provenienza illecita fossero finiti, tramite Dell’Utri, nelle holding di Berlusconi.

Furono il finanziere Rapisarda, socio di Dell’Utri, e diversi collaboratori di giustizia a parlare dei rapporti tra il gruppo Fininvest e la mafia.

Denaro mafioso sarebbe stato utilizzato dalla Fininvest per acquistare pacchetti - film, e per finanziare l’avvio delle reti televisive di Berlusconi.

Il gup di Palermo ha, però, archiviato l’indagine riguardante l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa nei confronti del Cavaliere.

Attualmente, diversi parlamentari di Forza Italia risultano coinvolti in Sicilia in vicende giudiziarie.

Il pieno controllo della maggiore banca pubblica italiana consentì alla Loggia P2 di procedere celermente nell’attuazione del suo "Piano di rinascita", del quale il gruppo Fininvest parrebbe costituire uno dei principali bracci operativi.

Costituito attraverso la piduista Bnl, il gruppo venne poi consolidato con ingenti finanziamenti erogati da altre banche, infiltrate dai piduisti:

18 miliardi per il primo aumento di capitale della Fininvest e 19 miliardi, che il gruppo aveva in deposito fiduciario presso la società Compagnia fiduciaria nazionale spa. Per un totale complessivo di 37 miliardi, e incidentalmente erano "30/40 miliardi" i capitali preventivati dal "Piano" piduista per assumere l’occulto controllo dei gangli vitali del Paese…

Nell’ancora segreto programma piduista, messo a punto tra il 75 ed il 76, noto come "Piano di rinascita democratica," era anche prevista l’immediata costituzione di una TV via cavo, "che avrebbe poi dovuto essere impiantata a catena, in modo da controllare la pubblica opinione media, nel vivo del Paese".
Berlusconi in un’intervista a "la Repubblica", datata 15 luglio 1977, dichiarava che avrebbe messo la sua televisione a disposizione di uomini politici della destra democristiana e anticomunista, riecheggiando la linea politica dell’ancora segretissimo "Piano" messo a punto dalla loggia massonica P2.
Il 10 aprile 1978 Berlusconi iniziò una collaborazione come editorialista sul maggior quotidiano italiano, il "Corriere della Sera", proprio quando la loggia P2 acquisiva, come dice la commissione parlamentare d’inchiesta, "il controllo finanziario e gestionale del gruppo Rizzoli".

Interpellato su Licio Gelli, Berlusconi rispose: "...Anch’io, come 50 milioni di italiani, sono sempre in curiosa attesa di conoscere quali fatti o misfatti siano effettivamente addebitati a Licio Gelli".
Gli saranno imputati reati quali concorso in bancarotta fraudolenta, associazione a delinquere, stragi…

Il programma della Loggia P2, che il 29 ottobre il presidente Pertini definì "un’associazione a delinquere", era contenuto nel "Piano di Rinascita Democratica," rinvenuto nel 1982 nella borsa della figlia di Gelli all’aeroporto di Fiumicino. Questo piano venne illustrato da Gelli in un’intervista a Maurizio Costanzo, apparsa sul "Corriere della sera" il 5 ottobre 1980.

Attraverso l’indebolimento dei sindacati, il controllo dei giornali e di politici dei partiti di governo e del MSI, e la distruzione del monopolio della RAI, si puntava a un mutamento della Repubblica in senso presidenziale, anche al fine di indebolire l’opposizione di sinistra e impedirne l’ingresso nel governo

il 63% dei giovani Americani Statunitensi non sa dove sia l'IRAQ

Sconcertanti i risultati di una ricerca del National Geographic su 510 americani
Dentro i confini non sanno collocare la Louisiana, devastata dall'uragano

Usa, giovani ignoranti in geografia
Il 63% non sa dove si trova l'Iraq


WASHINGTON - Non sono bastati tre anni di guerra e oltre 2400 vittime tra i soldati Usa, né le polemiche quotidiane sull'andamento delle operazioni militari nel Golfo: a tutt'oggi il 63% dei giovani americani non ha idea di dove si trovi l'Iraq. E' il risultato, a dir poco sconcertante, di una ricerca del National Geographic condotta su 510 intervistati, tutti giovani tra i 18 e i 24 anni.

E dire che alcuni loro coetanei in Iraq hanno perso la vita. Eppure la maggior parte dei giovani americani non è in grado di indicare sulla mappa del mondo il Paese islamico. Ma non si tratta solo dell'Iraq perchè la stessa ignoranza geografica colpisce anche altre nazioni nel mondo: quelle di cui si parla continuamente in televisione o sui giornali. Un esempio? Nonostante le cronache sui massacri nel Darfur, i giovani non hanno imparato dov'è il Sudan, tanto che oltre la metà ignora che si trovi in Africa, mentre il 20% lo situa in Asia e il 10% in Europa.

Le cose non vanno meglio dentro i confini americani. Basta considerare che il 50% degli intervistati non sa "localizzare" lo Stato di New York. Va peggio a quel 30% che davanti alla cartina del proprio Paese non sa trovare la Louisiana: eppure lo scorso anno era stata devastata dall'uragano Katrina.

Quanto agli abitanti degli Stati Uniti, i giovani americani sembrano davvero 'dare i numeri': il 30% ritiene la popolazione Usa sia tra uno e due miliardi, quando in realtà sono 300 milioni. Il 74% pensa che l'inglese sia la lingua più parlata nel mondo, invece del cinese. E non sanno nemmeno che il loro Paese è il più grande esportatore mondiale di beni e servizi.

Lapidario il giudizio del National Geographic, che definisce "allarmante" l'ignoranza dei giovani americani in geografia, ed esprime preoccupazione per le conseguenze e per il progressivo declino della materia nelle scuole. "Eppure la conoscenza geografica è ciò che ci permette di legare persone, luoghi ed eventi", spiega John Fahey, Ceo della società. "E' così che diamo senso al mondo".
(3 maggio 2006)
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Wednesday, May 03, 2006

non fate pubblicità gratuita e gradita alla destra , ribadite la storia Repubblicana,Costituzionale,democratica , Partigiana.

un consiglio a tutti coloro che fischiano o contestano personaggi del
centrodestra che partecipano in modo estemporaneo, non avendolo mai
fatto, a cortei come quello del 1 maggio o 25 aprile, e che non
nomino, non volendo fargli più pubblicità di quella che gli è stata
fatta: lasciateli stare, lasciateli vivere , manifestare ; in mezzo a
migliaia di persone ,se non fossero stati fischiati o contestati,
sarebbero sprofondati nel silenzio,silenzio che non volevano,era
evidente che prevedevano che sarebbero stati notati e
,conseguentemente, fatti notare dai media ,ed elevati al rango di eroi
civili che sfidano la mafia comunista ,il linciaggio bolscevico.
E non possiamo permetterci di far assurgere al ruolo di eroici
dissidenti politici certi tristi figuri.
Riguardo all'indignazione dei signori della destra per un discorso ,di
Bertinotti, che ha semplicemente ribadito le radici indiscusse della
nostra cosituzione republlicana democratica, mi pare che sia evidente
il loro intento costante di cancellare storicamente la storia
partigiana che era fatta non solo da comunisti, ma anche dai verdi del
Partito d'Azione, dai cattolici, socialisti , mentre certo tra i
partigiani non c'erano gli antesignani di AN , i cui esponenti, insieme
agli altri dell a destra continuano a sminuire la storia partigiana da
una perte e la barbarie fascista dall'atra, chiedendo una sorta di pari
dignita' tra Repubblikini Saloniani e Partigiani. Bertinotti ha citato
eroi tutt'altro che comunisti, come Calamandrei del Partito d'Azione e
Don Milani , vero cattolico intransigente e conforme al dettato del
nuovo testamento, e queste squadre di biliosi subito ad additarne il
comunismo, la cosiddetta "ideologia" ... Si vergognino.

Regionali siciliane, Vota Rita Borsellino

"LA LOTTA ALLA MAFIA DEV'ESSERE INNANZITUTTO UN MOVIMENTO CULTURALE CHE
ABITUI TUTTI A SENTIRE
LA BELLEZZA DEL FRESCO PROFUMO DELLA LIBERTà CHE SI OPPONE AL PUZZO DEL
COMPROMESSO MORALE, DELL'INDIFFERENZA, DELLA CONTIGUITA’ E QUINDI DELLA
COMPLICITA’" (Paolo Borsellino)

Tuesday, May 02, 2006

altri morti della civiltà pistolera statunitense

Questo è quello che succede quando il liberismo sfrenato ,l'individualismo incontrollato si sommano alla pistola facile.

(ANSA) - WASHINGTON, 19 APR - Ennesima sparatoria sul luogo di lavoro negli Usa: tre donne sono state uccise da un uomo che si e' poi suicidato nel Missouri. Ancora una volta a compiere il gesto folle e' stato un ex dipendente licenziato da poco. L'uomo ha fatto irruzione nell'azienda armato, mentre c'erano al lavoro decine di persone, ha sparato e ha ucciso la proprietaria e sua figlia. Poi si e' suicidato con un colpo di pistola. Qualche ora prima l'uomo aveva ucciso la moglie da cui era separato.

© Copyright ANSA Tutti i diritti riservati 2006-04-19 10:56

Berlusconi ha rassegnato le dovute dimissioni

ARIA NUOVA
Il 25 giugno votiamo NO
(di Federico Orlando)

Sulla “Mala Costituzione” andremo a votare il 25-26 giugno ed è una necessità patriottica che dalle urne referendarie esca un netto “No”, che gli italiani boccino questa bomba a scoppio ritardato del berlusconismo che il costituzionalista Alessandro Pace ha definito la “Costituzione incostituzionale” e il politologo Giovanni Sartori la “Mala Costituzione” .

Quasi un milione di firme sono state raccolte dal comitato promotore del “No”, il no alla grande porcata (la piccola porcata consequenziale è stata la riforma elettorale) del ministro Calderoli. La doppia trappola ha già funzionato in parte: la legge elettorale, coi suoi premi di maggioranza regionali, ha raggiunto lo scopo di rendere difficile governare al presunto vincitore delle elezioni (appunto Prodi). La Mala Costituzione è stata concepita invece nella prospettiva di un lungo epocale governo del cavaliere: per dare al premier un potere senza limiti. Ma a Palazzo Chigi per pochi voti è andato un altro, che di quel potere senza limiti non vuol sentir parlare. E s’è impegnato perché gli elettori respingano la Mala Costituzione e conservino quella che abbiamo e che andrà subito adeguata alle novità del terzo millennio. Vediamo un po’ le due cose.

La Mala Costituzione va bocciata soprattutto per due pericoli mortali che riserva al paese e alla democrazia: la concentrazione del potere, come si diceva, nella mani di uno solo, e la devastazione economico-finanziaria dell’Italia attraverso la devolution. Ricordava Sartori in un incontro di qualche giorno fa presso l’editore del suo libro, Laterza: il paese finirebbe in mano a un caudillo, col potere di sciogliere il parlamento se osa sfiduciarlo, licenziare i suoi ministri ad libitum, non doversi confrontare più con un capo dello Stato che lo “moderi” e lo mantenga nei binari della legalità. Quanto alla devolution, il trasferimento alle regioni della competenza primaria per la sanità, la scuola e l’ordine pubblico equivarrebbe (a parte la disuguaglianza clientelare dei cittadini dell’una e dell’altra regione) a una duplicazione delle spese, poiché mai lo Stato potrebbe rinunciare a tutte le sue competenze. Significherebbe la penalizzazione delle aree deboli, con l’abolizione o la riduzione dei trasferimenti statali, e quindi – per dirla in soldoni, così ci capiamo meglio – un colpo al cuore dell’industria del Nord e del commercio, per la riduzione del potere d’acquisto del mercato meridionale.

Ma, detto “No” a questa Mala Costituzione il 25 giugno, bisognerà che il ministro delle riforme preparai subito e il governo trasmetta alle commissioni affari costituzionali della Camera e del Senato, una proposta organica di aggiornamento della Carta costituzionale, risistemando anche il Titolo V sul federalismo, frutto della frettolosa riforma del centrosinistra. Come ha scritto Violante (sarà lui il ministro delle riforme?) nel suo bel libro “Lettera ai giovani sulla Costituzione”, dovremo fare: un parlamento (ridotto nel numero dei parlamentari e con funzioni diverse fra Camera e Senato) che non sia più il Sommo Legislatore, come lo volle la rivoluzione francese, ma torni controllore della attività del governo; un governo che recuperi buona parte del potere legislativo; un presidente del Consiglio con veri poteri di primo ministro e in equilibrio con un capo dello Stato che resti primo garante delle regole; una maggioranza che governi fin quando è tale e ritorni al paese quando va in crisi. Ha ragione insomma Follini quando dice che il “No” del 25 giugno (ci sarà anche il suo no) deve preludere non a un ritorno puro e semplice alla nostra Bibbia civile, come Ciampi giustamente chiama la Costituzione del 1948, ma a un dialogo tra maggioranza e opposizione: che non si ebbe né con la riforma del Titolo V né con la Mala Riforma di Berlusconi e Calderoli.

E’ compito di tutti noi – e Articolo 21 lo farà senza risparmio di energie - ricordare agli elettori che il 25 giugno chi va al mare tradisce se stesso e il paese, e ai politici che, dopo il No del referendum, non potranno permettersi di tradire a loro volta gli elettori.

www.articolo21.info

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29/04/2006