Niente lutto, i Queen trionfano a Roma La festa rock è stata comunque aperta con un minuto di silenzio in segno di rispetto. Aperta al Palalottomatica la tournée italiana
Al centro Paul Rodgers, il nuovo cantante dei Queen (Ansa)
ROMA - Inglesi, laici, iconoclasti e fedeli a uno dei loro classici («The Show Must Go On», lo spettacolo deve continuare), i Queen superstiti e redivivi hanno aperto ieri sera al Palalottomatica di Roma la loro tournée italiana che toccherà stasera Milano, il 7 Firenze e l’8 Pesaro. In netto contrasto con l’atmosfera che regnava a San Pietro e nel resto del mondo, si è svolta una festa rock in piena regola. Il capo della protezione civile Guido Bertolaso aveva cercato di convincere gli organizzatori (Claudio Trotta di Barley Arts) a sospendere il concerto per rispetto alla morte del Papa.
Ma i Queen e gli organizzatori avevano fatto orecchie da mercante. «Non spostarlo è stata una scelta di pessimo gusto - ha commentato Bertolaso -. Si facciano pure il loro concerto e spero che non ci vada nessuno». In realtà l’affluenza è stata massiccia e il successo trionfale. E gli organizzatori hanno risposto a Bertolaso con un comunicato letto prima del concerto: «Al Papa piaceva la musica e non crediamo che la musica dei Queen sia un disturbo. Tuttavia con rispetto al mondo cattolico vi chiediamo un minuto di raccoglimento». Reazione del pubblico, equamente diviso fra giovani e mezza età? «Se avessero sospeso il concerto sarebbe stato comprensibile, ma buttare un biglietto da 50 euro sembrava eccessivo».
Dopo il minuto di silenzio, il via allo show. Paul Rodgers, il sostituto di Freddie Mercury, giacca bianca e pantaloni neri con banda argentata, scatena subito il delirio su «Tie Your Mother Down». Sulla carta l’idea di una tournée dei Queen senza Mercury appariva disastrosa: come pensare agli Stones senza Jagger, agli U2 senza Bono, ai Nirvana senza Cobain. Non è possibile fare un paragone fra Mercury e il suo sostituto che però non ha deluso. Sul piano tecnico l’ex cantante dei Free e dei Bad Company ha tutte le carte in regola: presenza, voce, cultura, storia e sa suonare anche bene la chitarra come ha dimostrato in «Crazy Little Thing Called Love». Non ha la personalità eclettica della «regina» Mercury. Ma nei brani fortemente caratterizzati come «I Want to Break Free» funziona alla grande pur nel dilemma irrisolto nello show fra essere artista originale e/o sosia.
Mario Luzzato Fegiz
www.corriere.it
5 aprile 2005
"I swear to God, if I were a piano player or an actor or something and all those dopes thought I was terrific, I'd hate it. I wouldn't even want them to clap for me. People always clap for the wrong things". "(Holden Caulfield/JDSalinger - The catcher in the rye)
Tuesday, April 05, 2005
Totò Riina : "i giudici sono comunisti"
Totò Riina(boss di cosa nostra) : "i giudici sono comunisti"
"I giudici sono comunisti e non perseguono fini di giustizia, ma intendono favorire la sinistra ed usano le loro funzioni per screditare gli avversari politici".
Totò Riina, udienza al Tribunale di Reggio Calabria 25/5/94
MEDITATE GENTE !
"I giudici sono comunisti e non perseguono fini di giustizia, ma intendono favorire la sinistra ed usano le loro funzioni per screditare gli avversari politici".
Totò Riina, udienza al Tribunale di Reggio Calabria 25/5/94
MEDITATE GENTE !
Amministrative 2005. Prodi :" gli italiani ci chiedono di governare"
Prodi: gli italiani ci chiedono di governareNon pretenderà le dimissioni del premier. Fassino: Silvio ha perso la fiducia della maggioranza
ROMA—Le dita in segno di vittoria. Un sorriso che non finisce più. Il faccione di Romano Prodi illuminato dai flash che bersagliano la finestra della sede ulivista di piazza Santi Apostoli. «Una vittoria così non mel’aspettavo proprio, è una bella, bellissima nottata... ». Alle dieci di sera, l’uomo dell’Ulivo assapora quello che ha atteso per mesi. L’Unione non ha vinto: «Ha largamente vinto come numero di voti e numero di Regioni conquistate». Prodi corre verso il quartier generale di Piero Marrazzo, il colonnello che ha portato all’esercito ulivista il successo più sudato, più inaspettato. «Le analisi politiche? Quelle le faremo domani...» farfuglia di fretta l’ex presidente Ue, abbracciando Marrazzo, mentre tutt’intorno si alzano le note della «Canzone popolare» e la gente grida «Romano, Romano» e Piero Fassino abbraccia Walter Veltroni, che a sua volta abbraccia chiunque gli passi a un metro.
Eppure il domani politico è già qui. Perché, come gorgheggia un caricatissimo Pierluigi Castagnetti, «adesso, cara Italia, ci siamo anche noi». E molte cose cambieranno. Sicuramente più nel centrodestra che nell’Unione. Prodi ne è consapevole. Lo è sin da quando, ed eravamo a metà pomeriggio, la vittoria del centrosinistra ancora non aveva assunto le proporzioni definitive. Diceva in quei momenti il Professore con profilo volutamente basso, quasi non volesse dare eccessivo credito a quelle proiezioni che spingevano sempre più su la sua coalizione: «Con questo voto, gli italiani ci chiedono di prepararci a governare. E il mio impegno è quello di rispondere a queste attese». E qualcuno subito a domandarsi: forse che il Professore sta chiedendo le dimissioni, ora e subito, del premier Berlusconi? Per carità: «No, no, nessuna richiesta — l’immediata replica dello staff prodiano —: le parole del presidente vanno lette in prospettiva: quando verrà il momento, il nostro obiettivo sarà quello di ricostruire il Paese».
Che poi nell’Unione, viste le dimensioni del capitombolo elettorale berlusconiano, qualcuno accarezzi l’idea di anticipare i tempi, cominciando magari a dare qualche scrollone verbale alla Casa delle Libertà, è cosa che inevitabilmente prende corpo. E così, quando il leader ds Piero Fassino fa il suo ingresso in piazza Santi Apostoli, annunciando che «da oggi Berlusconi non ha più con sè la maggioranza degli italiani, che hanno invece espresso una netta preferenza per il centrosinistra», nessuno si stupisce più di tanto. Colpisce, piuttosto, il resto del ragionamento fassiniano: «Credo che sia cosa saggia per un uomo politico guardare in faccia la realtà e tener conto dei risultati elettorali ». Che è un invito, e neanche tanto velato, a farsi da parte. Subito. Un po’ quello che pensa, ma preferisce non dire («Non do consigli »), Massimo D’Alema, che nel 2000 si dimise da premier per una sconfitta molto meno bruciante (8 a 7) e che adesso snocciola con voluttà il pallottoliere elettorale: «Abbiamo almeno 6-7 punti più del centrodestra». Prodi, di parole, ne regala poche. I suoi parlano di «profilo istituzionale». Più semplicemente, forse, il Professore stasera preferisce che siano altri a cantare le lodi dell’Unione, la creatura per la quale si è speso in prima persona in tutti questi mesi. E così ecco Parisi ricordare che «anche in Lombardia, dove abbiamo perso, si è registrata una rimonta incredibile, eravamo a meno 30 punti dal Polo e ora siamo a meno 11: vuol dire che per le Politiche ce la giocheremo». E Castagnetti: «E poi, da quando esistono i due Poli, è la prima volta che il centrosinistra prende un numero di voti superiore agli avversari... ». Prodi guarda e tace. La faccia di chi ha pescato l’asso di briscola.
Francesco Alberti
www.corriere.it
05 aprile 2005
ROMA—Le dita in segno di vittoria. Un sorriso che non finisce più. Il faccione di Romano Prodi illuminato dai flash che bersagliano la finestra della sede ulivista di piazza Santi Apostoli. «Una vittoria così non mel’aspettavo proprio, è una bella, bellissima nottata... ». Alle dieci di sera, l’uomo dell’Ulivo assapora quello che ha atteso per mesi. L’Unione non ha vinto: «Ha largamente vinto come numero di voti e numero di Regioni conquistate». Prodi corre verso il quartier generale di Piero Marrazzo, il colonnello che ha portato all’esercito ulivista il successo più sudato, più inaspettato. «Le analisi politiche? Quelle le faremo domani...» farfuglia di fretta l’ex presidente Ue, abbracciando Marrazzo, mentre tutt’intorno si alzano le note della «Canzone popolare» e la gente grida «Romano, Romano» e Piero Fassino abbraccia Walter Veltroni, che a sua volta abbraccia chiunque gli passi a un metro.
Eppure il domani politico è già qui. Perché, come gorgheggia un caricatissimo Pierluigi Castagnetti, «adesso, cara Italia, ci siamo anche noi». E molte cose cambieranno. Sicuramente più nel centrodestra che nell’Unione. Prodi ne è consapevole. Lo è sin da quando, ed eravamo a metà pomeriggio, la vittoria del centrosinistra ancora non aveva assunto le proporzioni definitive. Diceva in quei momenti il Professore con profilo volutamente basso, quasi non volesse dare eccessivo credito a quelle proiezioni che spingevano sempre più su la sua coalizione: «Con questo voto, gli italiani ci chiedono di prepararci a governare. E il mio impegno è quello di rispondere a queste attese». E qualcuno subito a domandarsi: forse che il Professore sta chiedendo le dimissioni, ora e subito, del premier Berlusconi? Per carità: «No, no, nessuna richiesta — l’immediata replica dello staff prodiano —: le parole del presidente vanno lette in prospettiva: quando verrà il momento, il nostro obiettivo sarà quello di ricostruire il Paese».
Che poi nell’Unione, viste le dimensioni del capitombolo elettorale berlusconiano, qualcuno accarezzi l’idea di anticipare i tempi, cominciando magari a dare qualche scrollone verbale alla Casa delle Libertà, è cosa che inevitabilmente prende corpo. E così, quando il leader ds Piero Fassino fa il suo ingresso in piazza Santi Apostoli, annunciando che «da oggi Berlusconi non ha più con sè la maggioranza degli italiani, che hanno invece espresso una netta preferenza per il centrosinistra», nessuno si stupisce più di tanto. Colpisce, piuttosto, il resto del ragionamento fassiniano: «Credo che sia cosa saggia per un uomo politico guardare in faccia la realtà e tener conto dei risultati elettorali ». Che è un invito, e neanche tanto velato, a farsi da parte. Subito. Un po’ quello che pensa, ma preferisce non dire («Non do consigli »), Massimo D’Alema, che nel 2000 si dimise da premier per una sconfitta molto meno bruciante (8 a 7) e che adesso snocciola con voluttà il pallottoliere elettorale: «Abbiamo almeno 6-7 punti più del centrodestra». Prodi, di parole, ne regala poche. I suoi parlano di «profilo istituzionale». Più semplicemente, forse, il Professore stasera preferisce che siano altri a cantare le lodi dell’Unione, la creatura per la quale si è speso in prima persona in tutti questi mesi. E così ecco Parisi ricordare che «anche in Lombardia, dove abbiamo perso, si è registrata una rimonta incredibile, eravamo a meno 30 punti dal Polo e ora siamo a meno 11: vuol dire che per le Politiche ce la giocheremo». E Castagnetti: «E poi, da quando esistono i due Poli, è la prima volta che il centrosinistra prende un numero di voti superiore agli avversari... ». Prodi guarda e tace. La faccia di chi ha pescato l’asso di briscola.
Francesco Alberti
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05 aprile 2005
Elezioni Amministrative 2005. Polo del Berlu stramazza a terra
L'Italia
è cambiata
MASSIMO GIANNINI
L'ITALIA azzurra non c'è più. Quella "Fantasyland" felice e spensierata del 2001, dove un "partito personale" dominava in 81 province su 100, s'è dissolta. Quell'appendice virtuale di Milano2, riprodotta su scala nazionale dalla Casa delle Libertà, esiste ormai solo nella mente del suo "inventore". Berlusconi ha perso anche queste elezioni regionali.
Si partiva da 8 a 6 per il centrodestra. Dopo questa chiamata alle urne per 41 milioni d'italiani, secondo le proiezioni provvisorie della notte, finirà 11 a 2 per il centrosinistra. Si frantuma la geografia politica immaginata dal premier. Prodi consolida la sua leadership, la lista unitaria prende corpo, i Ds diventano il primo partito in molte aree del Paese.
L'opposizione strappa agli avversari il Piemonte al Nord, il Lazio al Centro e la Puglia al Sud. È molto più che una sconfitta. È una disfatta. Nel Polo, che resta maggioranza in Parlamento ma non nel Paese, finisce la "dittatura del premier". Quello che comincia non si sa ancora. Sicuramente un "tutti contro tutti", se non addirittura un "rompete le righe".
Le elezioni regionali sono un test locale per definizione. Ma qui c'è qualcosa di più. Dopo il trionfo del 2001, il Polo ha perso le amministrative del 2002, le provinciali del 2003, le europee e le comunali del 2004, le suppletive del 2005, e ora anche le regionali. In questa sequenza non c'è solo un "segnale", estemporaneo e congiunturale.
C'è forse, soprattutto, un travaso di voti nel bacino (finora a compartimenti stagni) della rappresentanza bipolare. Lo dimostra l'affluenza alle urne, molto alta considerata anche la traumatica coincidenza del voto con la scomparsa di Giovanni Paolo II. E se è vero (come insegnano i sondaggisti) che non esiste un astensionismo di sinistra, ma solo una forte quota di elettori incerti o lontani dalla politica, questo vuol dire che tanta parte di questo elettorato "di mezzo", che in passato ha votato per il Polo, stavolta ha votato per l'Unione.
Il tracollo del centrodestra è grave. Riapre al suo interno una verifica che in realtà non si era mai chiusa. Ne compromette in modo strutturale la già precaria stabilità. Per almeno quattro ragioni fondamentali.
1) La caduta del Piemonte sancisce il fallimento di un progetto strategico. Il blocco sociale più dinamico, quello della borghesia produttiva, dei professionisti e dei "padroncini", aveva affidato le chiavi d'Italia al "suo imprenditore", convinto che gli avrebbe aperto le porte dell'Eldorado economico. La vittoria della Bresso segna la fine di quel sogno.
L'opposizione, conquistando la regione della Fiat e della media impresa, infila un cuneo decisivo nel "fronte del Nord", che Berlusconi aveva blindato insieme a Bossi. Per il Cavaliere e il Senatur sarà difficile governare un Paese complesso come l'Italia dalla "ridotta padana" del lombardo-veneto. Questo voto indebolisce anche quell'"asse del Nord", intorno al quale Berlusconi ha costruito i suoi successi e la sua provvista di seggi sicuri. Quasi sempre a spese degli altri due alleati, An e Udc, sempre poco visibili, sempre troppo acquiescenti.
2) La beffa del Lazio è ancora più cocente. E gravida di conseguenze. Qui entra in rotta il modello sociale rappresentato dall'anima più popolare e populista di An. L'autodafè di Storace è clamorosa. Probabilmente non basta a spiegarla il verminaio sudamericano esploso con la Mussolini: se anche si fosse raggiunto un accordo elettorale con la nipote del duce, la somma dei voti delle rispettive liste non sarebbe bastata a superare Marrazzo.
In ogni caso, "Epurator" ha costruito la sua immagine sull'alterità: da Berlusconi, ma anche da Fini. Ha sempre contestato al suo leader la colpa di aver trasformato An in una "corrente" sbiadita di Forza Italia. Su questa posizione, ha dietro di sé una bella fetta di partito.
È verosimile che ora chieda il conto al vicepremier, riversando su di lui la responsabilità di un'onta che non riguarda una persona, ma un partito e il suo posizionamento politico dentro la coalizione. Ed è altrettanto verosimile che Fini, privo di un suo vero delfino e assorbito com'è dalla Farnesina, abbia adesso una seria difficoltà a controllare An, fiaccata da un gregariato estenuante e lacerata com'è dalle correnti interne.
3) Il probabile successo di Vendola in Puglia è una pugnalata al cuore di un sedicente "moderatismo" che, evidentemente, Forza Italia e i centristi dell'Udc (i due partiti più forti al Sud) si sono illusi di rappresentare quasi "a prescindere". Dovrebbe aver vinto un rifondatore comunista e gay discreto ma dichiarato, che va a prendersi una delle regioni più "conservatrici" della Penisola.
Al di là dei problemi che questa eventuale vittoria creerà nel centrosinistra sul piano dei rapporti di forza con Bertinotti, qui c'è l'indizio della crisi profonda di un falso modello di sviluppo, che il Cavaliere ha creduto di spacciare a colpi di grandi opere scritte sulla lavagna invece che realizzate sul territorio. Fitto è stato da sempre una pupilla dei suoi occhi, aperta sul prezioso serbatoio di voti del Mezzogiorno. Ora quella pupilla si chiude, e quel serbatoio si prosciuga. A Sud, per il Polo, resta solo la Sicilia.
4) Al fondo di tutto, c'è una nuova e inedita interpretazione del cosiddetto "fattore B". Così come quella di quattro anni fa fu in larga misura una vittoria personale, questa del 2005 è per ragioni uguali e contrarie una debacle personale. Perde la maggioranza, ma perde soprattutto lui, Berlusconi, che ha fondato le sue fortune politico-imprenditoriali sul mito dell'invincibilità. Il Cavaliere viene investito da un'onda lunga e crescente di malcontento popolare. La sanzione inevitabile dopo una fase stupefacente e ininterrotta di malgoverno politico.
Berlusconi perde sulla politica. Paga tutti gli errori commessi in questa avventurosa legislatura. Non lo premia una rovinosa riforma costituzionale, approvata prima di Pasqua solo per onorare un patto con la Lega, ma vissuta dagli italiani come una mannaia che si abbatte sull'unità del Paese. Non lo premia la grancassa degli sconti fiscali, suonata ossessivamente per un anno, e poi maledetta dai contribuenti che si sono ritrovati una manciata di spiccioli nella busta paga di gennaio.
Il Cavaliere ha cercato più volte di sminuire la portata generale di queste elezioni. Ma negli ultimi dieci giorni si è presentato ben due volte nel salotto tv di Vespa, "terza Camera" un po' corriva di questa sguaiata Seconda Repubblica. Ha occupato per una mattinata intera i microfoni di Radio anch'io. E se il mondo non si fosse fermato per la morte del Papa, avrebbe concluso tra bandiere e paillettes la campagna elettorale di Storace. Non proprio la condotta di chi vuole restare "fuori dalla mischia". Semmai la percezione, drammaticamente tardiva, di un consenso che gli stava e gli sta gradualmente sfuggendo di mano.
Berlusconi perde anche sui numeri. Dopo il 2001 avevamo creduto alla metamorfosi di Forza Italia, trasformata in un vero partito di massa. Ci eravamo sbagliati. Il crollo dei consensi che si registra dai primi dati sui voti di lista dimostra che quello del premier è rimasto ciò che era: un partito di plastica. Per questo, ora, anche tra gli azzurri si profila qualche notte dei lunghi coltelli, che non potrà non avere ripercussioni sul governo.
Il Cavaliere aveva affermato che alla fine avrebbe contato non il numero di regioni che cambiavano segno, ma il numero di elettori che avrebbero votato per i due schieramenti. Il premier incassa una batosta anche su questo. Nelle regionali del 2000 il Polo ottenne 14 milioni 170 mila voti, contro i 12 milioni 453 mila del centrosinistra. Cinque anni dopo la maggioranza perde oltre 2 milioni di voti, che passano quasi interamente all'opposizione. La Cdl precipita dal 50,8% a poco più del 44%. L'Unione decolla dal 44,6% a oltre il 52%.
Dopo questo sisma elettorale, si entra in una "terra incognita". Un anno di livorosa resa dei conti a destra. Fini e Follini dovranno dimostrare, se ne hanno la forza e la voglia, che "un altro centrodestra è possibile". Ma sarà difficile che ci riescano. Il Cavaliere è un animale ferito, e ora anche braccato. Azzarderà colpi di coda pericolosi e imprevedibili.
Ci aspettano dodici mesi di campagna elettorale permanente. Tra due settimane i ballottaggi, poi il referendum sulla fecondazione, poi le politiche nella prossima primavera. Ma queste regionali confermano che il Grande Seduttore non incanta più. Chiedere che si dimetta, compiendo lo stesso gesto di "disarmo unilaterale" che compì D'Alema nel 2000, non sarebbe sbagliato. Sarebbe inutile. Non lo farà mai. È geneticamente inadatto ad assumere quel minimo senso di responsabilità che si addice a qualunque uomo di Stato.
In quasi quattro anni ha rinunciato a tradurre in un vero progetto politico una folgorante intuizione personale. Continuerà a governare l'Italia usando la vecchia legge di Truman: se non li puoi convincere, confondili. Ma dopo queste regionali, forse, gli italiani hanno scoperto il trucco.
(5 aprile 2005) www.repubblica.it
è cambiata
MASSIMO GIANNINI
L'ITALIA azzurra non c'è più. Quella "Fantasyland" felice e spensierata del 2001, dove un "partito personale" dominava in 81 province su 100, s'è dissolta. Quell'appendice virtuale di Milano2, riprodotta su scala nazionale dalla Casa delle Libertà, esiste ormai solo nella mente del suo "inventore". Berlusconi ha perso anche queste elezioni regionali.
Si partiva da 8 a 6 per il centrodestra. Dopo questa chiamata alle urne per 41 milioni d'italiani, secondo le proiezioni provvisorie della notte, finirà 11 a 2 per il centrosinistra. Si frantuma la geografia politica immaginata dal premier. Prodi consolida la sua leadership, la lista unitaria prende corpo, i Ds diventano il primo partito in molte aree del Paese.
L'opposizione strappa agli avversari il Piemonte al Nord, il Lazio al Centro e la Puglia al Sud. È molto più che una sconfitta. È una disfatta. Nel Polo, che resta maggioranza in Parlamento ma non nel Paese, finisce la "dittatura del premier". Quello che comincia non si sa ancora. Sicuramente un "tutti contro tutti", se non addirittura un "rompete le righe".
Le elezioni regionali sono un test locale per definizione. Ma qui c'è qualcosa di più. Dopo il trionfo del 2001, il Polo ha perso le amministrative del 2002, le provinciali del 2003, le europee e le comunali del 2004, le suppletive del 2005, e ora anche le regionali. In questa sequenza non c'è solo un "segnale", estemporaneo e congiunturale.
C'è forse, soprattutto, un travaso di voti nel bacino (finora a compartimenti stagni) della rappresentanza bipolare. Lo dimostra l'affluenza alle urne, molto alta considerata anche la traumatica coincidenza del voto con la scomparsa di Giovanni Paolo II. E se è vero (come insegnano i sondaggisti) che non esiste un astensionismo di sinistra, ma solo una forte quota di elettori incerti o lontani dalla politica, questo vuol dire che tanta parte di questo elettorato "di mezzo", che in passato ha votato per il Polo, stavolta ha votato per l'Unione.
Il tracollo del centrodestra è grave. Riapre al suo interno una verifica che in realtà non si era mai chiusa. Ne compromette in modo strutturale la già precaria stabilità. Per almeno quattro ragioni fondamentali.
1) La caduta del Piemonte sancisce il fallimento di un progetto strategico. Il blocco sociale più dinamico, quello della borghesia produttiva, dei professionisti e dei "padroncini", aveva affidato le chiavi d'Italia al "suo imprenditore", convinto che gli avrebbe aperto le porte dell'Eldorado economico. La vittoria della Bresso segna la fine di quel sogno.
L'opposizione, conquistando la regione della Fiat e della media impresa, infila un cuneo decisivo nel "fronte del Nord", che Berlusconi aveva blindato insieme a Bossi. Per il Cavaliere e il Senatur sarà difficile governare un Paese complesso come l'Italia dalla "ridotta padana" del lombardo-veneto. Questo voto indebolisce anche quell'"asse del Nord", intorno al quale Berlusconi ha costruito i suoi successi e la sua provvista di seggi sicuri. Quasi sempre a spese degli altri due alleati, An e Udc, sempre poco visibili, sempre troppo acquiescenti.
2) La beffa del Lazio è ancora più cocente. E gravida di conseguenze. Qui entra in rotta il modello sociale rappresentato dall'anima più popolare e populista di An. L'autodafè di Storace è clamorosa. Probabilmente non basta a spiegarla il verminaio sudamericano esploso con la Mussolini: se anche si fosse raggiunto un accordo elettorale con la nipote del duce, la somma dei voti delle rispettive liste non sarebbe bastata a superare Marrazzo.
In ogni caso, "Epurator" ha costruito la sua immagine sull'alterità: da Berlusconi, ma anche da Fini. Ha sempre contestato al suo leader la colpa di aver trasformato An in una "corrente" sbiadita di Forza Italia. Su questa posizione, ha dietro di sé una bella fetta di partito.
È verosimile che ora chieda il conto al vicepremier, riversando su di lui la responsabilità di un'onta che non riguarda una persona, ma un partito e il suo posizionamento politico dentro la coalizione. Ed è altrettanto verosimile che Fini, privo di un suo vero delfino e assorbito com'è dalla Farnesina, abbia adesso una seria difficoltà a controllare An, fiaccata da un gregariato estenuante e lacerata com'è dalle correnti interne.
3) Il probabile successo di Vendola in Puglia è una pugnalata al cuore di un sedicente "moderatismo" che, evidentemente, Forza Italia e i centristi dell'Udc (i due partiti più forti al Sud) si sono illusi di rappresentare quasi "a prescindere". Dovrebbe aver vinto un rifondatore comunista e gay discreto ma dichiarato, che va a prendersi una delle regioni più "conservatrici" della Penisola.
Al di là dei problemi che questa eventuale vittoria creerà nel centrosinistra sul piano dei rapporti di forza con Bertinotti, qui c'è l'indizio della crisi profonda di un falso modello di sviluppo, che il Cavaliere ha creduto di spacciare a colpi di grandi opere scritte sulla lavagna invece che realizzate sul territorio. Fitto è stato da sempre una pupilla dei suoi occhi, aperta sul prezioso serbatoio di voti del Mezzogiorno. Ora quella pupilla si chiude, e quel serbatoio si prosciuga. A Sud, per il Polo, resta solo la Sicilia.
4) Al fondo di tutto, c'è una nuova e inedita interpretazione del cosiddetto "fattore B". Così come quella di quattro anni fa fu in larga misura una vittoria personale, questa del 2005 è per ragioni uguali e contrarie una debacle personale. Perde la maggioranza, ma perde soprattutto lui, Berlusconi, che ha fondato le sue fortune politico-imprenditoriali sul mito dell'invincibilità. Il Cavaliere viene investito da un'onda lunga e crescente di malcontento popolare. La sanzione inevitabile dopo una fase stupefacente e ininterrotta di malgoverno politico.
Berlusconi perde sulla politica. Paga tutti gli errori commessi in questa avventurosa legislatura. Non lo premia una rovinosa riforma costituzionale, approvata prima di Pasqua solo per onorare un patto con la Lega, ma vissuta dagli italiani come una mannaia che si abbatte sull'unità del Paese. Non lo premia la grancassa degli sconti fiscali, suonata ossessivamente per un anno, e poi maledetta dai contribuenti che si sono ritrovati una manciata di spiccioli nella busta paga di gennaio.
Il Cavaliere ha cercato più volte di sminuire la portata generale di queste elezioni. Ma negli ultimi dieci giorni si è presentato ben due volte nel salotto tv di Vespa, "terza Camera" un po' corriva di questa sguaiata Seconda Repubblica. Ha occupato per una mattinata intera i microfoni di Radio anch'io. E se il mondo non si fosse fermato per la morte del Papa, avrebbe concluso tra bandiere e paillettes la campagna elettorale di Storace. Non proprio la condotta di chi vuole restare "fuori dalla mischia". Semmai la percezione, drammaticamente tardiva, di un consenso che gli stava e gli sta gradualmente sfuggendo di mano.
Berlusconi perde anche sui numeri. Dopo il 2001 avevamo creduto alla metamorfosi di Forza Italia, trasformata in un vero partito di massa. Ci eravamo sbagliati. Il crollo dei consensi che si registra dai primi dati sui voti di lista dimostra che quello del premier è rimasto ciò che era: un partito di plastica. Per questo, ora, anche tra gli azzurri si profila qualche notte dei lunghi coltelli, che non potrà non avere ripercussioni sul governo.
Il Cavaliere aveva affermato che alla fine avrebbe contato non il numero di regioni che cambiavano segno, ma il numero di elettori che avrebbero votato per i due schieramenti. Il premier incassa una batosta anche su questo. Nelle regionali del 2000 il Polo ottenne 14 milioni 170 mila voti, contro i 12 milioni 453 mila del centrosinistra. Cinque anni dopo la maggioranza perde oltre 2 milioni di voti, che passano quasi interamente all'opposizione. La Cdl precipita dal 50,8% a poco più del 44%. L'Unione decolla dal 44,6% a oltre il 52%.
Dopo questo sisma elettorale, si entra in una "terra incognita". Un anno di livorosa resa dei conti a destra. Fini e Follini dovranno dimostrare, se ne hanno la forza e la voglia, che "un altro centrodestra è possibile". Ma sarà difficile che ci riescano. Il Cavaliere è un animale ferito, e ora anche braccato. Azzarderà colpi di coda pericolosi e imprevedibili.
Ci aspettano dodici mesi di campagna elettorale permanente. Tra due settimane i ballottaggi, poi il referendum sulla fecondazione, poi le politiche nella prossima primavera. Ma queste regionali confermano che il Grande Seduttore non incanta più. Chiedere che si dimetta, compiendo lo stesso gesto di "disarmo unilaterale" che compì D'Alema nel 2000, non sarebbe sbagliato. Sarebbe inutile. Non lo farà mai. È geneticamente inadatto ad assumere quel minimo senso di responsabilità che si addice a qualunque uomo di Stato.
In quasi quattro anni ha rinunciato a tradurre in un vero progetto politico una folgorante intuizione personale. Continuerà a governare l'Italia usando la vecchia legge di Truman: se non li puoi convincere, confondili. Ma dopo queste regionali, forse, gli italiani hanno scoperto il trucco.
(5 aprile 2005) www.repubblica.it
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