ecco il capitolo "Il burattinaio" (alias Luciano Moggi) da Piedi puliti di Leonardo Coen, Peter Gomez (copyright Garzanti Libri, 1998, 2006).
Il Burattinaio
Anche per lui la vera rivoluzione era stata l’Olanda di Cruijff. Veder finalmente giocare una squadra a tutto campo, con attaccanti e difensori che si scambiavano di ruolo, pronti a lasciare l’uomo per andare a coprire la zona, gli aveva suscitato una profonda emozione. E ancora di più lo aveva colpito scoprire che i calciatori, quegli atleti immensi, anche fisicamente molto più alti e veloci dei campioni nostrani della pelota, la sera in ritiro non ci andavano da soli. Con loro c’erano mogli, fidanzate, amanti. Donne bellissime, dalle caviglie sottili e dallo sguardo azzurro e impenetrabile. Donne che facevano sognare. Ma che a lui mettevano quasi la tremarella addosso.
Quante volte aveva discusso dell’Olanda. E quante volte, davanti a un bicchiere di buon rosso, la conversazione era man mano scivolata verso il basso. Verso le virili prodezze degli olandesi che forse avrebbero potuto trasformare anche un uomo come lui, bonariamente definito dagli amici un «mediano d’ingombro», in un campione.
Correvano i primi anni Settanta. E Luciano Moggi da Monticiano (Siena) aveva ormai capito che, superata abbondantemente la boa dei trent’anni, il calcio, quello giocato, gli era definitivamente precluso. Anche una cura olandese a base di bionde e allenamenti non avrebbe mai potuto portarlo in campo.
Contro l’anagrafe non c’era nulla da fare.
La sua vita, guardata dalla stazione di Civitavecchia, dove era ormai arrivato a ricoprire il grado di capo gestione, sembrava dovergli riservare solo treni, binari e tanta noia.
Del football però sapeva tutto. Ogni mattina divorava i quotidiani sportivi, e poi le pagine sportive di quelli nazionali. Così mentre in stazione smistava pacchi (pare che quella fosse la sua specialità), ripensava alle formazioni, agli arbitri, agli allenatori e soprattutto ai presidenti.
Il suo più caro amico Graziano Galletti, un panettiere di Grosseto, commentava con lui le loro imprese. Insieme andavano indietro nel tempo ricordando la mitica Inter di Angelo Moratti e del suo Richelieu, quell’Italo Allodi che per Luciano, futuro direttore generale della Juventus di fine millennio, sarebbe diventato una specie di modello.
Nei Bar Sport della penisola, è vero, i tifosi non ricordavano solo le gesta di Mariolino Corso, «il piede sinistro di Dio», che ancora caracollava qua e là per i campi schiacciato dal peso inesorabile del tempo. Tra loro c’era anche chi continuava a parlare di regali degli arbitri. I più cattivi, in genere i milanisti, sostenevano addirittura che a far da contraltare ai favori dei fischietti ve ne fossero stati altri, inconfessabili, resi dal vecchio Moratti ai direttori di gara. I tifosi favoleggiavano di terne arbitrali che prima delle partite di coppa dell’Inter si erano ritrovati al polso pesanti orologi d’oro. Oro massiccio, come massiccio era stato il catenaccio di quella squadra da favola, pronta a uccidere in contropiede velleità e speranze di qualsiasi formazione, vincendo campionati e Coppe dei Campioni.
Ma dalla curva nerazzurra si era sempre sollevata pronta una risposta. Quasi con un ruggito il popolo interista non smentiva, ma urlava al mondo la sua rabbia e parlava di altri arbitri e di altre squadre: prima tra tutte quella di Torino, l’odiata Juventus, dove, stando alla leggenda, le giacchette nere arrivavano allo Stadio Filadelfia a piedi e ne uscivano su fiammanti Millecento. Insomma, per gli interisti pensare che il presidente, pur di portare in alto gli undici eroi di San Siro, fosse disposto a combattere ad armi pari con gli altri padroni del pallone era solo un motivo in più d’orgoglio. Non un disonore.
Che tempi. E che calcio. Un calcio immaginato, più che vissuto. Un calcio idealizzato ascoltando per radio la voce di Nicolò Carosio e Nando Martellini. Un calcio sognato leggendo sui giornali i resoconti di Gianni Brera e di Gino Palumbo. Allora non c’era la diretta tv. Tutto era rimesso ad altri, a pochi privilegiati mediatori di una magia che era possibile provare solo di tanto in tanto andando allo stadio.
Luciano quella magia sentiva di averla nel sangue e nelle ossa. Era come una perniciosa febbre malarica che lo colpiva puntualmente ogni domenica.
Fu così che per sconfiggerla Moggi provò a vivere di football. Prima proponendosi come osservatore proprio per la Juve dove era approdato, tramontata l’era Moratti, il Richelieu Allodi, sicura garanzia di vittorie a ripetizione. Poi trasferendosi nella capitale, dove di squadre ce n’erano addirittura due: la Roma e la Lazio. Lì Luciano non ci mise molto a capire che nel mondo del pallone c’era posto per tutti: anche per uno come lui.
Ad assumerlo fu la Roma, ma ben presto cominciò a occuparsi anche della Lazio. Per Moggi, che amava il calcio prima di ogni cosa, dedicarsi a una sola squadra era infatti troppo poco. Anche perché il vecchio presidente di Lupi giallorossi, Dino Viola, abituato com’era a trattare da pari a pari con «gentiluomini» dal calibro di Giulio Andreotti o del suo braccio destro Franco Evangelisti, lo guardava sempre dall’alto in basso. E non per una questione fisica.
A Luciano infatti restava ancora appiccicata addosso un’etichetta da parvenu della pelota. E anche se Viola non disdegnava la compagnia di altri parvenu come i palazzinari fratelli Caltagirone, con Moggi, ricco di spirito e di talento ma povero di contanti, il presidente dimostrava sempre una certa ritrosia. Tanto che, raccontano, quando lo incontrava gli dava il gomito al posto della mano.
Luciano Moggi però non se la prendeva.
I suoi amici era destinato a trovarli altrove: a bordo campo, in campo e soprattutto nei ristoranti. I collaboratori migliori grazie ai quali, di lì a qualche anno, concluderà affari miliardari, li ha pescati qui. È il caso per esempio di Pino Pagliara, un pizzaiolo emigrato in Inghilterra, prima a Londra e poi a Manchester, ora grande stratega delle operazioni di Luciano in Gran Bretagna. O di Vincenzo Morabito, ex gestore di una trattoria di Göteborg, che un giornale tradizionalmente poco tenero con i colori bianconeri come «Il Messaggero» ha incluso nell’elenco degli «agenti FIFA e procuratori» fidati di Moggi.
Ciro a Mergellina, Ilio e Urbani a Torino, La Cantinetta e l’Hotel Royal a Napoli: sono le salette riservate di locali come questi i veri uffici di Moggi. Uffici impenetrabili ai più, veri sancta sanctorum del calcio italiano, che contribuiscono a creare intorno a ogni trattativa un’atmosfera da leggenda. Il contratto di Del Piero è stato discusso nel tempio culinario della «Venerabile confraternita del baccalà alla vicentina», antica e poco segreta società veneta solita riunirsi al Due Spade, vicino a Vicenza.
SEXY-CALCIO
Juventus, Roma, Lazio, Torino, Napoli e poi ancora Torino. Di squadra in squadra la carriera di Moggi è in continua ascesa. Luciano cresce. Impara. E quando, dopo aver vinto scudetto e coppe varie sul ponte di comando della squadra di Maradona torna all’ombra della Mole Antonelliana, Moggi capisce anche che in epoca di Prima Repubblica il peso della politica può diventare decisivo. Ancor più decisivo di un buon giocatore o di un fischietto considerato di fiducia.
Il suo nuovo presidente Gian Mauro Borsano è amico di Bettino Craxi, grande tifoso del Toro. Moggi lo sa e, pur di emergere, decide di strafare. Inizia la Coppa UEFA. A Torino gli arbitri internazionali calano a frotte. I granata decidono così di ospitarli al meglio: grandi alberghi (l’Hotel Turin), grandi mangiate e soprattutto splendidi dopo cena.
In un clima da Folies Bergères, la squadra accumula vittorie su vittorie. Il Torino diverte il suo pubblico. Anche i fischietti si divertono. La sera al loro fianco hanno avvenenti interpreti. Donne da favola che, a seconda delle epoche, si sarebbero chiamate massaggiatrici, astrocartomanti, cocottes...
Finché, nel 1993, le notti brave garantite alle giacchette nere non fanno finire Moggi davanti ai magistrati. Il reato contestato a Luciano e al segretario generale della squadra Gigi Pavarese è addirittura di sfruttamento della prostituzione. Un’accusa che poi finirà in archivio per ragioni in buona parte tecniche.
La sexy-inchiesta nasce quando la Guardia di Finanza scopre in casa di Giovanni Matta, un anziano contabile del club, un’agenda sulla quale il puntiglioso ragioniere era solito annotare tutte le uscite in nero della società sportiva. I militari si insospettiscono leggendo una annotazione in cui Matta elenca i milioni spesi per «pubbliche relazioni-accompagnatrici arbitri». Poi capiscono tutto non appena si imbattono in un appunto molto più esplicito: «Una certa Adriana R. chiede 6,3 milioni, è una puttana, mi dicono di pagarla». Matta, convocato in Procura, non ci mette molto a confessare: «Ogni terna arbitrale tra un omaggio e l’altro ci veniva a costare una decina di milioni».
Borsano conferma, ma scarica tutto su Moggi. E Luciano? È in difficoltà. Per difendersi ricorre al mestiere e cerca di spedire la palla in corner. «Io credevo che fossero delle semplici interpreti», balbetta. «E poi quando capii che facevano, ordinai di non pagarle più».
Moggi ammette però altri regali ai fischietti, precisando che «non superavano il milione di lire a testa. È una prassi normale, non l’ho inventata io».
Comunque stiano le cose, un fatto è certo. Gli arbitri, deliziati dalla compagnia femminile, fanno come i giocatori di quell’Olanda di quel calcio totale che tanto aveva impressionato Moggi quasi vent’anni prima: arbitrano meglio.
In quella stagione i risultati per il Toro sono eccellenti. Nel 1991- 92 la squadra di Borsano, confortata in attacco dalle prestazioni di Gianluigi Lentini, arriva in finale di Coppa UEFA e perde per un soffio contro l’Ajax.
Anche le prestazioni degli arbitri sono di un certo rilievo. Una delle lucciole ingaggiate dal Toro, la Adriana R. dell’appunto di Matta, ricorda di aver ricevuto una telefonata da Gigi Pavarese, segretario generale dei granata e attuale dirigente del Napoli, il «quale si presentò come segretario di Moggi che avevo conosciuto al ristorante». E aggiunge : «Pavarese mi chiese la disponibilità per il dopo-cena. Sono una donna di mondo, sono abbastanza adulta per capire che era richiesta una prestazione amorosa...».
Finiscono così nel mirino della magistratura tre partite in cui Adriana e due amiche si sono date da fare per rendere più piacevole il soggiorno torinese delle terne arbitrali di Coppa. Tre incontri tutti regolarmente vinti dal Toro: Torino-Reykjavik (arbitro il croato Colic), Torino-Boavista (arbitro l’inglese Hackett) e Torino-AEK di Atene (arbitro il belga Goethals).
Nel primo caso le «interpreti» si sono limitate a essere tali. Il croato Colic, dopo una cena al ristorante, al momento della buona notte ha regalato ad Adriana e alle sue amiche un mazzo di rose. Negli altri due l’allenamento prepartita è proseguito in notturna e le sparring partner dei fischietti hanno preteso dalla società granata due milioni a testa più le spese.
Le carte processuali raccontano che il loro intervento sugli arbitri era, per così dire, «a sorpresa». Le ragazze infatti si presentavano all’Hotel Turin dove venivano loro consegnate le chiavi delle stanze dei direttori di gara e si facevano trovare in camera pronte all’uno contro uno.
Il 18 marzo del ’94 Adriana racconta ai magistrati: «Quando arrivammo in camera c’erano già i bagagli degli ospiti che ci raggiunsero dopo un quarto d’ora, venti minuti. Non so dire se si aspettavano di trovarci lì. Ma secondo me no».
Anche gli arbitri sono uomini. E così la bella Adriana può assicurare: «No, vedendomi in camera, non fui presa per una ladra. Non fui cacciata. Il signore che avevo davanti però non mi chiese chi ero. Mi ricordo solo che parlava francese, ma io e lui non conversammo molto. Bevemmo un drink e poi facemmo quello che avevo pensato...».
Interrogato, Pavarese sostiene che Adriana ha «equivocato l’incarico assegnatole». Moggi continua a insistere dicendo di aver saputo tutto a cose fatte.
I magistrati a questa versione credono poco.
Nel decreto di archiviazione della sexy-inchiesta, definita senza mezzi termini una «poco edificante vicenda», il giudice ricorda come «la necessità di interpreti o di altre figure delegate alle pubbliche relazioni non fu sicuramente una necessità, potendo contare il Torino Calcio su una struttura organizzativa di sicura efficienza che già annoverava validi collaboratori con funzioni d’interprete». Ma anche se «due episodi di congiunzione carnale» vengono provati, le accuse di favoreggiamento della prostituzione contro Luciano e il fido Pavarese finiscono in archivio. Due sole prestazioni, spiegano i magistrati, «sono un numero troppo modesto per poter sostenere un discorso di continuità, presupposto oggettivo indispensabile per poter parlare di favoreggiamento della prostituzione». Inoltre ai due indagati va concesso il beneficio del dubbio: non c’è la prova che nei discorsi tra Pavarese e Adriana «sia intervenuto l’esplicito invito ad assecondare gli arbitri nei loro desideri».
Sul piano sportivo invece sembra tutta un’altra musica. Per il giudice, «l’iniziativa di rendere più ameno il soggiorno degli arbitri a Torino, in occasione delle partite di Coppa UEFA, qualunque siano state le reali finalità dell’ingaggio di avvenenti signore addette al dopo cena, rivela una chiara volontà di addolcire la severità degli arbitri, rendendoli obbligati verso la città che li ospitava con tanto riguardo e sicuramente meno liberi nell’esercizio del loro incarico». Forse la «sudditanza psicologica» di cui si parla così spesso nel mondo del calcio nasce anche così.
Le squalifiche sembrano scontate. Ma non sarà così. Anche se nel decreto di archiviazione dell’inchiesta penale il giudice definisce sin troppo «evidente» la «lesione degli interessi sportivi, nonché la frustrazione delle regole che animano il gioco del calcio», l’UEFA, dopo aver garantito un severo ripulisti, non interviene. «Il severo giudizio morale» espresso dalla magistratura ordinaria non sarà sufficiente a smuovere i padroni del pallone.
Ma tanto basta. Si apre l’inchiesta sul Torino e sulla gestione Borsano (che nel frattempo è diventato protagonista di fallimenti a go-go). Il buon Luciano cambia aria. Ricordandosi che in fondo era stato un capo gestione (qualifica equivalente a quella di capo stazione) e che quindi non poteva permettersi di sbagliare treno, Moggi abbandona i granata mentre viaggiano sicuri verso la rovina. L’aveva già fatto negli anni Ottanta quando aveva lasciato un altro Torino, quello del presidente Sergio Rossi, per il Napoli di Maradona, a sua volta salutato, come vedremo più avanti, ai primi accenni di tempesta.
Moggi ritorna così a Roma, alla corte del neopresidente Franco Sensi portando (apparentemente) in dote due giocatori di peso: Paulo Sousa e il difensore del Napoli dello scudetto Ciro Ferrara. I giallorossi esultano. Ma per poco.
Nel frattempo è diventato amministratore delegato della Juve un manager abituato a fare i conti più con i bilanci che con le ragioni del cuore: Giovanni Giraudo, braccio destro di Umberto Agnelli, tifoso torinista. Giraudo decide di affidarsi a Moggi e al suo staff. Luciano, nei campi di calcio lo sanno anche i pali delle porte, è un mago, anzi qualcosa di più. E così Giraudo lo sceglie come direttore generale, anzi come direttore ombra. Prima di potergli affidare ufficialmente l’incarico, è infatti necessario attendere la chiusura della sexy-inchiesta. Moggi fa buon viso a cattivo gioco: si sistema in un ufficetto e attende paziente il decreto di archiviazione.
Sensi grida al tradimento. E grida al tradimento anche il popolo della Juve. La curva, infatti, Giraudo se lo ricorda bene. Nella mente dei tifosi c’è ancora l’immagine arcigna di quell’uomo dagli occhi di rana che per quarant’anni allo stadio ci era andato sì tutte le domeniche, ma sempre con al collo una sciarpa granata. Certo, del Toro Giraudo non era mai stato un dirigente, ma ne è sempre stato un supporter doc. E che dire poi di Moggi, che quando lavorava per Borsano aveva quasi fatto vincere agli odiati cugini la Coppa UEFA?
SILENZIO STAMPA (1)
Già, che dire? Niente. Perché dopo le contestazioni arrivano anche Ferrara e Sousa. E poi le vittorie a ripetizione della squadra diretta con maestria da Marcello Lippi.
La piazza si placa. La Juve vince e gioca in modo straordinario. Solo Sensi tenta di protestare ancora. Ma non serve. Anzi, forse è controproducente. In casa c’è chi lo osteggia: Fabrizio Carroccia, alias «Mortadella», simpatico capetto degli ultras giallorossi, nemico suo e amico di Lucianone Moggi.
Qualche domanda se la pongono invece i giornalisti. Marco Travaglio, nel 1994 cronista della «Voce» di Indro Montanelli, scrive che la campagna acquisti della Juve è stata diretta da Moggi, il quale a causa delle imbarazzanti indagini giudiziarie non può comparire in prima persona. Giraudo invita Travaglio a colazione. Gli dice che non è vero, ma quando il cronista domanda un comunicato ufficiale di smentita da parte della società, il dirigente juventino nicchia. Prende tempo.
Quell’incontro segna, forse, l’inizio di un periodo di rapporti tesissimi tra la stampa sportiva e i vertici dirigenziali della Vecchia Signora. Gli attacchi si fanno ripetuti. Tanto che il 12 settembre del 1996 Giraudo e Moggi pensano bene di organizzare una cena riparatrice. Sono presenti una dozzina di giornalisti. I manager juventini sembrano tranquilli. Di fatto giocano in casa. Come terreno dell’incontro è stato scelto il ristorante Da Ilio Due Mondi, dove Moggi sfida spesso a carte un altro Luciano: Nizzola, il presidente della Federcalcio, conosciuto nei primi anni Ottanta, quando entrambi erano dirigenti del Toro. Dopo qualche bicchiere volano parole grosse. La cena riparatrice si trasforma in una rissa verbale. Giraudo, raccontano i presenti, se la prende con un cronista di «Tuttosport» che gli risponde per le rime. E poi attacca Travaglio, che non c’è: «Fa del giornalismo schifoso, vergognoso, inaccettabile. Ho fatto in modo che non scrivesse più. Il suo è un giornalismo alla Pecorelli...». Comunque siano andate le cose, l’autogol è clamoroso. Travaglio infatti, informato dai colleghi, presenta un esposto in Pretura.
Vale la pena di raccontare la vicenda nei dettagli, basandosi sulle carte processuali, visto che la geniale iniziativa distensiva della Juve è diventata oggetto di un’inchiesta penale. I cronisti sfilano come testimoni davanti ai magistrati. Giraudo nega di aver paragonato Travaglio a Mino Pecorelli, il giornalista iscritto alla P2, da molti considerato un «ricattatore» e ucciso, secondo la Procura di Perugia, per ordine di Giulio Andreotti. Moggi nella sua deposizione assicura: «Non ho sentito assolutamente Giraudo fare cenno a un giornalismo alla Pecorelli. La discussione era sì accesa, ma l’importanza del contendere non era tale da far trascendere in accuse o minacce».
Malgrado questa autodifesa, si giunge al rinvio a giudizio per due. Il sostituto procuratore presso la Pretura, Patrizia Gambardella, manda alla sbarra Giraudo per diffamazione e Moggi per favoreggiamento. A suo avviso il direttore generale della Juve ha tentato di salvare il suo amministratore delegato «rendendo false dichiarazioni» agli investigatori. Il processo sarà celebrato nel 1999.
La débacle della cena riparatrice sortisce però effetti ancor più perniciosi. I giornalisti, i maledetti giornalisti che comunicano al mondo dei tifosi ogni palpito, emozione, gesto, frase dei campioni bianconeri, incominciano a non starci più. Gli articoli si fanno più «cattivi» o, a seconda dei punti di vista, più veritieri.
Dopo averci provato con le buone, la Vecchia Signora cambia registro. Scattano le «sospensioni». Ad alcuni cronisti viene impedito l’accesso agli spogliatoi, quello agli allenamenti e il contatto con i giocatori. È ovvio: i calciatori bianconeri, come qualsiasi altro cittadino, sono liberi di parlare con chi vogliono. Ma dal punto di vista dei rapporti con l’opinione pubblica sventolare cartellini gialli e rossi davanti a chi usa penna e taccuino non è un gran bella trovata.
Alla fine anche i manager juventini se ne rendono conto. Quando, nel campionato del ’97-98, errore arbitrale dopo errore arbitrale, quasi tutti i media danno addosso alla squadra, i dirigenti decidono il black out assoluto. È il silenzio stampa, un po’ per dare tranquillità ai campioni, un po’ per evitare gaffes e polemiche.
Ma ormai è tardi. Il caso Juventus è ormai un caso. E, come tutti i casi di italica memoria, finisce in tribunale. Non però davanti ai giudici penali, dove c’è il rischio d’incontrare un pubblico ministero che, magari partendo dagli articoli di giornale, decide di aprire un’inchiesta, con tanto di pedinamenti, intercettazioni telefoniche e analisi di bilancio. Il giudice che si dovrà occupare della questione Juve-arbitri sarà quello civile.
L’avvocato Vittorio Chiusano, presidente della squadra bianconera e noto al mondo come «l’avvocato dell’Avvocato» (Gianni Agnelli), il 6 marzo cita per danni «Il Messaggero» e un suo corsivista, Roberto Renga. Chiusano pretende un risarcimento di 10 miliardi per una serie di articoli comparsi nel mese di febbraio sul quotidiano romano: 10 miliardi, appena 2 meno del premio che la Lega Calcio riserva ai club vincitori del campionato.
Viste con il senno di poi, le «colpe» del «Messaggero» sono chiare. In febbraio, quando a lamentarsi degli arbitraggi erano soprattutto le squadre romane, Renga aveva analizzato il comportamento di alcuni fischietti non solo durante le partite in cui giocavano i bianconeri, ma anche durante i match che vedevano impegnate le dirette concorrenti della Juve allo scudetto. Ed era giunto alle conclusioni cui sarebbero arrivati con durezza molti altri osservatori dopo la partita scandalo Juve-Inter.
Il 13 febbraio per esempio aveva scritto: «Tra la notte di mercoledì e il pomeriggio di ieri si è calcisticamente consumato il delitto perfetto. Mercoledì: rigore tolto al Brescia, rigore e espulsione scippati all’Inter, rigore regalato alla Roma, cartellino giallo a Mihajlovic che salterà così la partita di domenica prossima. E contro chi giocherà la Sampdoria? Ma via è facile, la Juventus». Renga proseguiva interrogandosi sulle designazioni arbitrali e concludeva esprimendo molte perplessità sul futuro della gestione Nizzola.
Dopo quel pezzo Renga non aveva riposto la penna nel cassetto. Aveva continuato a scrivere e, nei giorni successivi, se l’era presa anche con Moggi ricordando come suo figlio Alessandro fosse procuratore di «ottanta giocatori, sparsi in vari club, anche in quelli che la domenica vanno ad affrontare la Juventus di Moggi senior». Per lui quello era un lampante, arcitaliano, banalissimo problema di conflitto d’interessi.
Interventi duri, quelli del «Messaggero». Ma sempre nel più puro stile del corsivismo se non sportivo, almeno politico. Uno dopo l’altro, sia pure con la faziosa acrimonia del tifoso, il quotidiano di Roma elenca, nei suoi articoli, gli eventi e solleva degli interrogativi.
La risposta non si fa attendere. Arriva il 6 marzo 1998 dall’avvocato dell’Avvocato. Nel suo atto di citazione a giudizio Chiusano spiega che il club bianconero, «il quale ha in progetto di emettere azioni da quotare in borsa», è rimasto vittima di una campagna stampa «arrecante ingiustamente danni rilevanti, patrimoniali e non».
«È naturale», scrive Chiusano, «che il mercato borsistico londinese (Londra è una delle principali piazze finanziarie del mondo) che potrebbe accogliere la emissione e la quotazione delle azioni Juventus ne penalizzi il valore se si mette in dubbio che i risultati – e quindi gli incassi – dipendano da illeciti più che dai meriti sportivi e che è possibile o probabile un accertamento di tali illeciti, addirittura in sede penale, di questi ultimi con ovvie conseguenze a carico della Juventus. È questo appunto anche il parere di importati banche d’affari esperte nell’assistenza per le quotazioni e i collocamenti in borsa». La reazione è insomma durissima. La Vecchia Signora non tollera neanche l’ombra di un sospetto. Mancano ancora 51 giorni a quel fatidico Juve-Inter.
Il direttore del «Messaggero» Pietro Calabrese non si scompone: «L’avvocato Agnelli avrebbe chiuso e risolto la vicenda con una battuta spiritosa. Con Giraudo e Moggi, invece, si finisce in mano agli avvocati. Non mi pare che sia nello stile Juventus». La «campagna» continua.
Moggi, invece, sembra sempre più compreso nella sua parte di grande vecchio. Prima fa la vittima: «Siamo soli contro tutti, mentre le squadre romane hanno il privilegio di sentirsi protette», tenta di rilanciare. Poi, quando gli viene domandato chi protegga le supertartassate Roma e Lazio, si chiude a riccio. E si rifugia in un linguaggio per iniziati: «I messaggi che ho mandato sono arrivati agli indirizzi giusti». Che cosa vuol dire? Boh. Misteri del calcio italiano.
Il padrone intanto è sempre più lui. Adesso anche chi non si era mai interessato di sport lo chiama «re del calcio mercato». I giornali lo paragonano a Clinton. Non tanto per quella vecchia storia di procaci donnine, ma perché, scrivono i quotidiani, va in giro con due telefonini. Nei periodi caldi, quando bisogna fare le squadre, c’è chi sostiene di averlo visto ricevere in un solo giorno 625 chiamate.
Numeri da capogiro, come da capogiro sono i contratti conclusi dai giocatori della sua scuderia (da non confondere con la sua scuderia di cavalli). Moggi rappresenta infatti, secondo i quotidiani sportivi, una trentina di campioni del calibro di Di Livio, Fonseca, Conte, Tacchinardi, Zidane, Davids, Totti, Petruzzi, Scapolo, Amoroso, Fresi, Galante, Ravanelli, Boksic, Cruz, Crespo, Cannavaro, Thuram e Mihajlovic... Fatti due conti, sono circa settecento miliardi di carne da pallone: una «internazionale» del calcio che costringe tutti i presidenti a trattare con lui. Non a caso Moggi è consulente anche di Moratti e Cragnotti, proprietari di Inter e Lazio, le due squadre dirette concorrenti della Juve. Un bell’intreccio. Anche Michele Santoro, in una puntata di Moby Dick, è sbottato: «Ma questo è un conflitto d’interessi».
(da Leonardo Coen, Peter Gomez, Leo Sisti, Piedi puliti, Garzanti, Milano, 1998)