Un Libro sulla politica mafioso-clientelare scritto dal figlio di un politico siciliano che "ha sputato sul piatto su cui ha mangiato", gli dicono.
recensione di Maria Mazzei
Un libro a metà tra l'ingenuo racconto di un bambino alle prese con cose da grandi e la lucida accusa ad un intero sistema di potere questo "Figlio di partito. Visti da bambino gli amici di papà" di Alfonso Sciangula (Armando Siciliano Editore). E' il racconto del figlio appunto di Salvatore Sciangula, importante uomo politico siciliano che nella sua lunga carriera ricoprì incarichi nel governo della regione Siciliana e più tardi di capogruppo all'Assemblea regionale. Un figlio d'arte insomma Alfonso Sciangula, anzi di partito; che annovera tra gli eccellenti parenti anche Giuseppe Sinesio, sottosegretario in vari ministeri e poi vice presidente del partito negli anni Settanta. Entrambi ex sindaci di Porto Empedocle (nell'agrigentino) ed entrambi appartenenti alla potente Democrazia Cristiana siciliana, alla corrente andreottiana.
Alfonso Sciangula – cui viene rimproverato di «sputare nel piatto nel quale ha mangiato» - ripercorre la sua infanzia scandita dalle visite, dagli incontri e dai comizi del padre cui assiste con sorprendente curiosità; troppa curiosità, fino al punto di venire allontanato da certe riunioni. Ma l'esclusione non fa che aumentare la voglia di sapere di capire e di investigare i meccanismi di una pratica politica della quale il padre era maestro ed artefice. Politica clientelare, quella vecchio stile, in cui il cittadino-suddito veniva ascoltato ed esaudito dal suo padrino politico; in cui i partiti e i loro vari esponenti locali e nazionali altro non erano se non portatori di doti, di servizi e di relazioni. «Una volta - scrive Sciangula - chiesi a mio padre come si facesse a ricoprire un incarico di alta responsabilità». E il padre - il maestro - risponde che conquistare una poltrona è come «partecipare ad un'asta in cui ogni partecipante portava qualcosa da offrire e da porre sul piatto della bilancia per essere soppesato».
Questa era la politica ai tempi di Sciangula, fino all'avvento della fantomatica Seconda Repubblica. Una politica che conosceva bene anche la mafia, naturalmente. Tanto bene da conoscere alla perfezione che anche il linguaggio doveva essere uno strumento ben mediato dell'attività di propaganda: mai parlare di mafia, di latitanti, e soprattutto di antimafia. Alla mafia, per Sciangula, in pochi hanno resistito: resistito «al richiamo dell'accordo facile, del compromesso spartitorio, che assicurava favori e protezione da un lato e voti e/o soldi da riciclare dall'altro». Appare ineluttabile la scelta di colludere con la mafia, quando l'autore amaro afferma che «sono pochi, anzi inesistenti, i partiti che in Sicilia non hanno avuto rapporti di connivenza con la mafia».
Si tratta di una politica marcia, all'interno e all'esterno dei partiti. In cui un politico non deve solo comprarsi i voti del proprio compagno di squadra, che gli è negato per lotte intestine; ma talvolta anche quello della squadra avversa, in un consociativismo cui non erano estranei il sistema imprenditoriale e quello dell'informazione. E' il sistema che ben conosciamo, quello di Tangentopoli. Scoppiato e mai risolto perché – come sostiene l'autore - la Verità, quella che ha lasciato dentro le istituzioni e dentro l'amministrazione pubblica le "talpe" che allora come oggi assicurano impunità e protezione - fino a che il cavallo è in sella e poi di nuovo a disposizione per il novello potente del momento - sono rimaste al loro posto. E quel sistema, quello di Tangentopoli, sarebbe caduto non per i colpi dei moralizzatori, ma per la sua stessa insostenibilità. E' stato l'enorme debito pubblico che ha scompaginato le carte, più delle «accuse, delle indagini, delle condanne e delle reticenze della stessa magistratura che per anni non era intervenuta, così come non era intervenuta la Corte dei COnti, il Tar, il Co.re.co e quant'altrio dovevano controllare e non hanno controllato».
Una sorta di bestiario moderno in cui gli amici di papa si muovono sul palcoscenico di un sistema politico malato che produce malattia. Sono molti gli “attori” di questa recita tragicomica in un gioco - quello proposto dall’autore - di identificazione possibile solo attraverso la decodifica di soprannomi, linguaggi e vezzi. Come a dire – chissà se a ragione -: sono tutti uguali.
da www.cuntrastasmu.org
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